Il meccanismo di una mente complottista non è né complicato né strano. Alla base c’è uno schema di pensiero comune, che possiedono tutti, a cui si assomma una fitta serie di questioni emotive. Nei casi peggiori sfocia in deliri paranoici patologici, ma, in realtà, «un po’ complottisti lo siamo tutti», dice Paolo Attivissimo, debunker, giornalista scientifico, da anni attento rivelatore di bufale e smascheratore di falsi complotti (il suo blog, il Disinformatico, è uno dei più seguiti). «Lo sono anche io», confessa. L’unica differenza, forse, è il dramma del dubbio e la necessità di portare dati e dimostrazioni a sostegno delle proprie tesi. Per il resto, «lo schema mentale è presente in tutti gli esseri umani, è vantaggioso dal punto evolutivo. E poi il fascino di una teoria in grado di spiegare tutto quello che succede nel mondo è innegabile». Vero: il problema è che si rivela, quasi sempre, sbagliata. Le persone “normali”, di fronte all’evidenza, abbandonano l’ipotesi. Chi persiste, invece, diventa un complottista vero: resta abbarbicato, contro tutto e contro tutti, alla sua idea.
Ecco: perché insistono? Perché continuano a crederci?
Il cospirazionismo nasce da un bisogno di vedere confermata la propria visione del mondo, sia dal punto di vista teorico sia nella vita quotidiana. Una volta che si delinea una teoria si cercano, anche nelle esperienze di tutti i giorni, conferme continue. Si restringe la lettura della realtà, si selezionano certi fatti e non altri. Sono convinto che nelle merendine siano presenti coloranti cancerogeni? Appena vedrò persone che stanno male sarò convinto che sia dovuto alle merendine. Anche di fronte a eventuali smentite.
Sembra abbastanza normale, però: tutti ci incaponiamo in alcune convinzioni.
Sì, è così. Siamo tutti un po’ complottisti, in realtà. Non è sempre una questione di psicopatologie, anzi. Il fatto è che noi esseri umani siamo riconoscitori di schemi: li vediamo nella realtà, li riconosciamo e facciamo collegamenti. Li costruiamo sulla base dei dati che abbiamo, e la nostra visione del mondo ne rimane condizionata. Certo, se le informazioni che abbiamo sono poche, le nostre conclusioni possono essere sbagliate. Faccio due esempi.
Prego.
Se siamo nella savana e vediamo l’erba che si muove, possiamo pensare che sia un animale feroce. E scatta l’allarme. È uno schema che riconosciamo, cui attacchiamo una reazione. Ci è servito molto, a livello evolutivo, perché permetteva di intepretare la realtà a partire da pochi dati. Può portare, però, a conclusioni sbagliate: io vedo una fotografia del Pentagono dopo l’11 settembre, e il buco nel muro. E mi dicono “È troppo piccolo perché sia stato davvero provocato dall’aereo”. È interessante, ma è solo una foto. Eppure per alcuni basta per togliere fondamento a tutto il modo in cui viene raccontato l’11 settembre. È sempre uno schema, ma è sbagliato.
Siamo tutti complottisti. Ma per fortuna ci sono i dati che ci permettono di capire dove sbagliamo
Perché è sbagliato?
Perché io devo chiedermi: “Ma questo buco è davvero così? Esistono altre immagini? Confermano questa ipotesi?”. Se la risposta è no, se non ci sono altri dati, allora devo per forza sospendere questa teoria. Non ha fondamento sufficiente e non posso prestargli fede. Anche se è interessante.
La tentazione però a volte è forte..
E lo capisco: siamo tutti complottisti. Pensiamo alle case farmaceutiche: tutti abbiamo il sospetto che un po’ ci marcino sopra, anche perché sono aziende, e hanno come obiettivo la massimizzazione dei profitti e non il bene dell’umanità. Il fatto che un farmaco inutile venga introdotto solo per il loro interesse è una tesi di complotto sostenibile, ma il problema è sempre lo stesso: i dati. Serve la dimostrazione, la realtà fattuale. Che è proprio l’opposto rispetto al pensiero complottista, che invece rifiuta il dato, almeno, il dato che smentisce la tesi che ha in mente. Diventa controfattuale.
Perché si diventa complottisti, allora?
Dipende. Ci sono varie predisposizioni personali che portano alla paranoia, senza dubbio. È anche un modo per reagire a fallimenti della vita, a eventi negativi che non si vogliono accettare. Il fatto è che l’uomo non è un animale razionale. È tutto il contrario: vive di sensazioni, emozioni, impressioni. Il lato razionale è minore. Il metodo scientifico è il mezzo per contrastare questa natura: introduce il dato e lo mette al centro del discorso. Il caso di Uri Geller è emblematico: piegava cucchiai, spostava oggetti con il pensiero. Riusciva a esercitare un fascino incredibile, e aveva tratto in inganno anche membri della comunità scientifica, fisici che credevano ai suoi trucchi. È dovuto intervenire un prestigiatore come James Randi per svelare i suoi trucchi. Ma come è potuto capitare che scienziati preparati prestassero fede alle parole di Uri Geller?
Lo chiedo a lei.
Forse credevano di avere in mano la scoperta del secolo, il Nobel per la fisica. È stato il desiderio di vedere confermata la propria visione delle cose, e di ottenere dei riconoscimenti.
Questo, diciamo, dal lato psicologico, spiega perché si diffondono. Ma qual è l’origine storica di queste teorie?
Direi che sono due i punti essenziali: il primo è la paura del diverso. Io vedo nel diverso le cause dei problemi, e il diverso è qualsiasi gruppo isolato e separato dalla comunità principale. E allora è colpa di ebrei, massoni, immigrati, rom, e così via. È una visione tribale, solleva dalle proprie responsabilità e crea un nemico.
Il secondo?
Che si comincia a frequentare solo le persone che la pensano allo stesso modo. Si cercano sempre e solo conferme e si rifiutano le smentite. Diventa un processo di autoconferma, e ci si isola in comunità.
Vale anche per le religioni?
Dipende dalle religioni. Quelle che si concentrano in modo maggiore sul lato spirituale, sono poco propense a sviluppare un pensiero cospirazionista. Non si isolano e non rifiutano i dati della realtà. Quelle più rigide e dogmatiche, che impongono letture e interpretazioni anche di ciò che succede nel mondo, sono più pericolose. Penso al fondamentalismo cristiano in America, che nega le teorie sull’origine della Terra, o alla ginecologia islamica. Il Dalai Lama, al contrario, ha sempre detto che se religione e osservazione sono in contrasto, allora vince l’osservazione.
Esistono nella storia ondate e periodi in cui i complottismi aumentano?
Penso di sì. Cambiano anche. Negli anni ’60 e ’70, ad esempio, era molto più in voga il paranormale: ad esempio la Traccia Verde, un telefilm giallo in cui la pianta emette dei messaggi quando si avvicina all’assassino. Ora si è passati al cospirazionismo: c’è bisogno di una visione più strutturata, senza dubbio, ma è anche colpa dei media. Se vengono fatte trasmissioni come Voyager, in cui si parla di fine del mondo nel 2012 prevista dai Maya come se fosse una cosa vera (e si vendono anche libri), allora, c’è una responsabilità precisa. La tv e i media in generale hanno scoperto che il complottismo è un business, che ha una nicchia di mercato, e lo sfruttano. E non va bene.
Il cospirazionismo appaga il nostro bisogno di equilibrio, anche estetico
Direi di no.
Poi il punto problema è che il cospirazionismo appaga. Mette ordine nel mondo. Le cose succedono a casaccio, il caos fa paura. L’idea di un Grande Vecchio che vede e provvede dà un senso a tutto, e per molti un ordine negativo è preferibile al disordine, rassicura di più. Poi c’è un altro aspetto importante.
Quale?
C’è bisogno di proporzionalità tra causa ed effetto.
Che significa?
Che a un grande evento spettacolare deve corrispondere una causa altrettanto grande. La nostra mente fatica ad ammettere che un personaggio come la principessa Diana possa morire per circostanze banali come un incidente d’auto, di notte, in una galleria. O che Kennedy venga ucciso, davanti a tutti, da un cecchino squilibrato. Sono storie che non soddisfano, appaiono monche. Abbiamo bisogno di narrazioni più grandi, proporzionate al soggetto e alla fine che ha fatto. Per questo, appena ne troviamo traccia, le seguiamo. È quasi un bisogno di equilibrio estetico, e il cospirazionismo lo appaga. E appaga anche l’idea di sapere qualcosa che gli altri non sanno: “io lo so, voi no”, e siete “sheeple”, cioè popolo di pecoroni.
Il problema è che i complotti esistono davvero.
Esatto. Il cospirazionismo è tossico proprio perché distoglie dai veri complotti, che hanno un effetto reale sulla vita di tutti. Erano persi a spiegare che l’11 settembre era opera degli stessi americani, a inventarsi sostanze esplosive come la nanotermite – che non esiste, è solo una congettura – per spiegare il “vero” motivo per cui sono crollate le Twin Towers, teorizzavano aerei pilotati da lontano con equipaggio fatto di ologrammi e, guarda un po’, non si accorgevano che gli Stati Uniti avevano creato un sistema di cavi per sorvegliare le ambasciate di mezzo mondo. È dovuto arrivare Snowden a rivelarlo. E i complottisti? Perché non se ne sono accorti?
Può succedere che alcuni finti complotti vengano inventati ad arte per mascherare veri complotti?
Il meta-complotto? Certo. È anche accaduto. È il caso di Roswell, nel New Mexico. Erano stati trovati alcuni materiali di non chiara origine, i militari erano arrivati sul posto e avevano requisito tutto senza dire una parola. Un mistero. Si era diffusa la voce che fossero pezzi di un disco volante.
E invece?
E invece si scopre, 50 anni dopo, che erano frammenti di uno speciale sistema di rilevamento, segretissimo, che gli Usa impiegavano per scoprire se la Russia svolgeva esperimenti nucleari. Era un pallone sonda, munito di un microfono molto sensibile che, a una certa altezza nell’atmosfera, era in grado di captare i rumori del mondo. Se nel territorio russo scoppiava una bomba, il sistema lo avrebbe sentito di sicuro. All’epoca non esistevano i satelliti spia. Per cui ci si affidava a questi mezzi, ed erano così segreti che, quella volta, il governo Usa preferì lasciar credere (o insinuare perfino) che fosse un disco volante. In ogni caso, ci sono stati molti falsi complotti per coprire complotti veri: un esempio, più generale, riguarda gli ebrei sotto la Germania nazista.
Ignorare il metodo scientifico è un atto irresponsabile
Si può guarire dal complottismo?
Non saprei. Di sicuro serve l’abitudine al pensiero scientifico. Bisogna insegnare la razionalità a scuola, perché non è una caratteristica dell’uomo. Le sensazioni, le emozioni, sono cose molto umane. E la scienza serve a contrastarle nelle sue forme più degenerate. Ignorare il metodo scientifico è un atto irresponsabile, e succede spesso, per motivi di ogni genere. Alcuni anche comprensibili: avere un figlio autistico può portare qualcuno a cercare un colpevole, ad attribuire ad altri le ragioni di un fatto che sono del tutto casuali, e lo trovano nei vaccini. Anche qui, siamo di fronte a un caso in cui l’emotività è fortissima.