Fino a qualche tempo fa il Metropolitan Museum of Art di New York non aveva neppure un piano coordinato per raccogliere gli indirizzi mail dei suoi visitatori, sei milioni di persone all’anno. Ora, come sottolinea il Wall Street Journal, la musica è cambiata. Se si vuole accedere al servizi wifi del museo, bisogna inserire i propri dati, così il Met ha già collezionato 100.000 indirizzi di posta elettronica. Ed ormai non ci si limita più alle tradizionali newsletter. Adesso, grazie agli smartphone, chi visita una mostra o una collezione permanente può accedere a una vasta gamma di servizi. In cambio, deve fornire informazioni su se stesso. L’osservatore (di opere d’arte) viene osservato (dal museo). Aggregando questi dati si costruisce una piattaforma essenziale per chi dirige un’istituzione culturale. L’obiettivo non è solo quello di fidelizzare il cliente/visitatore. Conoscere i gusti degli spettatori è importante per elaborare strategie adeguate, artistiche e di marketing, e quindi aumentare i ricavi.
I Big Data cambieranno la fruizione dell’arte, come hanno già cambiato, in parte, il modo di fare politica o giornalismo? I musei si comporteranno come vere e proprie aziende, rapportandosi al “consumatore di cultura” come la Wal-Mart, la Netflix o i grandi magazzini Macy’s, che tracciano le preferenze dei loro clienti per aumentare le vendite? Negli Stati Uniti sembra proprio di si’. Una della parole chiave per capire la nuova relazione tra istituzione culturale e spettatore si chiama “beacon”. Si tratta di piccoli emettitori Bluetooth che trasmettono un segnale digitale, consentendo ad un visitatore dotato di smartphone di registrare la propria posizione e di ricevere informazioni sull’opera d’arte, oltre ad una serie di servizi, personalizzabili. Al tempo stesso, però, il museo raccoglie una gran mole di dati, ad esempio sui movimenti di chi ha visitato la mostra o la collezione permanente (su quali opere si è soffermato, quali ha evitato di vedere,…).
Il Met ha iniziato proprio in questi mesi la sperimentazione dei beacon, ma il leader americano, nel rapporto coi Big Data, sembra essere il Dallas Museum of Art, che utilizza i beacon già da tempo. Con il programma “DMA Friends”, poi, il museo offre una membership gratuita in cambio di nomi ed indirizzi mail (il cellulare è opzionale, ma molti lo forniscono comunque), e organizza un sistema premiale, con l’accumulo di punti, sul modello dei programmi frequent flyer delle compagnie aeree. Si possono vincere buoni parcheggio, biglietti per eventi speciali, persino prodotti di bellezza o l’utilizzo privato dell’auditorium museale. Adesso il DMA sta collaborando con altri musei americani – il Los Angeles County Museum of Art, il Minneapolis Institute of Arts e il Denver Art Museum – per costruire programmi analoghi. Intanto i beacon saranno operativi entro l’estate 2015 anche al Guggenheim di New York: basterà scaricare la app del museo od utilizzare un iPod temporaneamente fornito dal museo (al posto delle tradizionali audio guide).
Fidelizzare il cliente e conoscerne i gusti, si è detto. Il museo di Minneapolis, ad esempio, analizza i dati dei sondaggi svolti sui visitatori e li utilizza per prendere decisioni in ambito artistico (se i numeri indicano che le persone non sono molto interessate ad una mostra in programma, questa esposizione può essere rinviata, modificata oppure trasferita ad una struttura più piccola). Negli ultimi mesi, oltre all’istituto del Minnesota, il Met, il Museum of Fine Arts di Boston e il Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City hanno lanciato una campagna nazionale di reclutamento di analisti dei dati. Il Norman Rockwell Museum di Stockbridge, in Massachussets, lavora dall’anno scorso con la DigiWorks per aumentare le vendite del proprio bookshop. Accumulare dati sulle preferenze dei clienti ed elaborare offerte ad hoc, questo l’obiettivo della collaborazione (il museo ha anche uno store on line). Lisbeth McNabb, fondatrice ed amministratrice delegato di DigiWorks, dice che è essenziale stabilire con il consumatore un rapporto diretto, “one-to-one”. La campagna ha avuto successo, andando al di la dei suoi stessi obiettivi (sedici per cento in più di quanto stimato). I secondi acquisti sono cresciuti del 150 per cento. Quest’anno, in occasione del Black Friday e del Cyber Monday, le vendite sono cresciute notevolmente rispetto al 2013.
Ovviamente non mancano le problematiche, in primo luogo a livello di privacy (infatti i musei, oltre ad adottare sistemi informatici per proteggere i dati dei loro clienti, sottolineano sempre che si tratta di scelte volontarie). E poi c’è una questione di offerta culturale. Se si fondano le scelte artistiche sui gusti dei consumatori, si rischia di proporre non le esposizioni più innovative ed ambiziose, ma quelle in grado di rivolgersi a un pubblico più largo. La nicchia, in sostanza, verrebbe regolarmente sacrificata a favore delle mostre blockbuster.
Preoccupazioni sensate, certo. Ma al tempo stesso è importante che i dirigenti dei musei prendano decisioni informate. In questo senso, i Big Data sono veramente un game-changer. Conoscere chi frequenta un museo, cosa vede, cosa acquista, è essenziale per attrarre gli sponsor, elaborare strategie di marketing per le mostre future, personalizzare i messaggi sulla base delle visite precedenti.
L’analisi dei gusti di chi frequenta un’istituzione culturale non può prescindere dall’ambiente in cui, per eccellenza, si esprimono giudizi, i social network. In Italia è appena uscito un rapporto dedicato alla percezione, da parte degli stranieri, dei quindici principali luoghi culturali italiani, basata proprio sull’indagine semantica delle opinioni espresse sui social. L’inchiesta, “Museo Index: cultura e Big Data”, è stata realizzata da Sociometrica e dall’associazione Mecenate 90, in collaborazione con Expert System.
Sociometrica, utilizzando la tecnologia Cogito di Expert System, ha analizzato 89.520 valutazioni, tutte in lingua inglese, di persone che hanno visitato musei o aree archeologiche italiani. Sono stati sintetizzati in concetti-chiave commenti non strutturati e si è dato un valore al sentiment e alle emozioni espresse dopo la visita; per ogni istituzione culturale, quindi, sono state ottenute valutazioni sintetiche, su una scala da 0 a 100 (la sufficienza coincideva con 50 punti, la piena soddisfazione dai 75 in su). Dalla classifica è emersa la leadership della Reggia di Venaria, vicino a Torino (90 punti), seguita dal Museo Egizio della stesso capoluogo piemontese (84 punti), e dal Guggenheim di Venezia (81 punti). Gli altri musei ed aree archeologiche sopra la soglia dei 75 punti sono le Gallerie dell’Accademia di Venezia, la Galleria degli Uffizi di Firenze, la Pinacoteca di Brera, a Milano, e gli scavi archeologici di Ercolano.
I commenti sui social si concentrano su poche, note, strutture (il Colosseo, Pompei, certi musei di Roma, Venezia e Firenze). C’è un generale apprezzamento per la magnificenza dei luoghi, ma emergono alcuni problemi: nell’ordine, la qualità organizzativa – ad esempio, i tempi di attesa e l’affollamento -, il costo eccessivo dei biglietti e il contesto sociale negativo (Pompei, il Museo di Capodimonte di Napoli, la Reggia di Caserta, e, in parte, il Colosseo).
Il ministro Franceschini, che ha appena firmato un decreto fortemente innovativo – per la prima volta i direttori di 20 musei italiani, dotati di autonomia speciale, verranno scelti con un bando internazionale – si è dimostrato consapevole dei problemi della valorizzazione dei luoghi d’arte, dell’incremento dei ricavi, del potenzialmente dei servizi museali, anche con l’apporto dei privati, ma la strada è ancora lunga. I risultati economici ottenuti da musei, scavi e siti di interesse storico nel 2013 si sono fermati a 380 milioni di euro (il solo Louvre arriva a 2,5 miliardi, la Gran Bretagna a 5 miliardi). Chi visita un luogo culturale italiano spende poco – meno di cinque euro in media – perché i servizi accessori sono carenti e il visitatore non è ancora considerato un cliente/consumatore, di cui occorre conoscere i gusti, in modo da soddisfarlo. In questo senso, i Big Data possono fare la differenza. Le grandi istituzioni dovrebbero prendere esempio dai Musei Civici di Palazzo Farnese, a Piacenza, il primo museo italiano ad utilizzare i beacon.