L’ultimo film di Clint Eastwood è nelle sale italiane da tre settimane esatte, in quelle statunitensi da una, e sta generando un dibattito molto polarizzato e acceso, soprattutto negli Stati Uniti. Un dibattito che ha una caratteristica bizzarra: invece di concentrarsi sul valore artistico del film, si sta concentrando sul suo valore morale.
L’accusa più diffusa — declinata con diversi gradi di intensità e di acredine —è sostanzialmente una, ovvero che American Sniper sia smaccatamente un film di propaganda con l’obiettivo di esaltare la grandezza dell’esercito americano e dei suoi eroi, dipingendo gli iracheni come dei nemici disumani, privi di qualunque complessità e profondità psicologia.
«American Sniper ha un problema», scrive Amanda Taub su Vox. «È un film sulla distinzione in bianco e nero tra bene e male, ma è ambientato quasi interamente durante la guerra in Iraq, che può essere raccontata onestamente soltanto in scala di grigio».
«È un film la cui componente politica è talmente ridicola e idiota», scrive, andandoci giù duro, Matt Taibi su Rolling Stone , «che in circostanze normali non varrebbe nemmeno la pena di criticarla. L’unica cosa che ci spinge a prenderla sul serio è il fatto straordinario che una visione del mondo simile abbia logorato il cervello grosso come una noce del presidente che ci ha fatto combattere la guerra in questione».
C’è un errore in questo tipo di critiche ed è molto grave, quello di voler giudicare in termini morali un’opera artistica. Errore grave, dico, perché l’arte e la morale, fortunatamente, non hanno un legame di necessità tra di loro. Dire che un’opera d’arte è meno opera d’arte perché sostiene valori immorali, o perché, semplicemente, fa riferimento a categorie e valori morali diversi dai nostri, è infatti, e per fortuna, una bestialità o, al meglio, una gran perdita di tempo.
Tre spunti sul tema, ché mi sta parecchio a cuore:
1. Il 25 gennaio del 1884, alla Regia Università di Palermo, il critico Mario Rapisardi tenne un lungo discorso intitolato La morale dell’arte. Rapisardi, che era loquace quanto sanguigno e irruente nelle sue argomentazioni, andò subito al punto e, prima che finisse il primo minuto del suo discorso, aveva già detto tutto:
Da una parte si mugola: l’arte ha da essere sensuale; dall’altra parte si bela: l’arte ha da esser casta e pura […] l’arte non ha a esser questo, ne quello: l’arte ha da esser se stessa: l’arte si può fare e rifare in tutti i modi, purché riesca a una cosa sola: cioè, ad esser arte.
2. Una trentina di anni dopo, nel 1914, Ezra Pound — un poeta e intellettuale la cui grandezza ci è totalmente preclusa se ci fermiamo al giudizio morale — scrisse che solo l’arte inaccurata, solo l’arte disonesta, è immorale perché dipinge gli uomini per quello che non sono.
La moralità dell’arte esiste, dunque, soltanto che non è quella — non per forza, almeno — che ci accompagna nella nostra vita. Riteniamo tutti che uccidere sia immorale, per esempio, ma quando ci affacciamo a un’opera d’arte — a un film, un libro o quant’altro — quella morale la lasciamo alla vita, e ci godiamo il film, il libro o quant’altro indipendentemente, anche se fosse il diario di un serial killer o di un medico nazista in un campo di concentramento.
Questo della moralità e, più in generale, della necessaria “correttezza” di un’opera d’arte, che dovrebbe secondo alcuni aderire per forza alla morale condivisa del nostro orizzonte, è un vizio molto americano, un vizio che purtroppo si è ormai diffuso anche qui Europa.
3. In un breve saggio intitolato Scorrettezza del canone, lo scrittore italiano Michele Mari descrive molto bene questa dinamica, applicata alla letteratura nelle università americane:
Ossessionata dal bisogno di political correctness, la cultura americana degli ultimi trent’anni ha dato sempre più spazio e peso alle ragioni delle minoranze e al valore neoilluministico della tolleranza. Così i grandi testi della tradizione occidentale sono stati sistematicamente messi in discussione e screditati uno dopo l’altro dall’accusa di connivenza con il potere, di immoralità, di crudeltà.
Il discorso di Mari si riferisce al trattamento riservato nelle università americane ad autori del canone letterario mondiale come Dante, Virgilio, Omero, Conrad, Jane Austen, Céline. Un trattamento, in fondo, molto simile a quello che sta subendo il film di Clint Eastwood, preso per un documento storico quando non lo è per niente.
American Sniper non soltanto non è un documento storico, ma non è nemmeno un film storico. Non ha pretesa di esserlo. A Eastwood non interessa nulla della guerra in Iraq, e nemmeno degli iracheni. E ne ha tutto il diritto: perché Clint Eastwood non è mica l’ONU, è un regista, ed è anche piuttosto bravo. Certo, è un conservatore, è un vecchio conservatore di quasi novantanni, ma è un gran regista, e lo è anche in American Sniper, che è un infatti un gran film. Solo che non è un film storico, è un film western.
A questo proposito voglio citarvi una recensione, l’unica di tutte quelle che ho letto che per me è da incorniciare. L’ha scritta Roberto Recchioni sul suo blog Dalla parte di Asso, e c’entra perfettamente il punto:
[Clint Eastwood] gira film.
E li gira con consapevolezza, misura e equilibrio. Come ha sempre fatto.
Unendo un gusto classicissimo per la narrazione alla John Ford (ed è per questo che i suoi film invecchiano benissimo) con la capacità di imprimere potenti accelerazioni nelle scene d’azione e violenza (e qui si vede tutto il suo debito nei confronti del cinema USA degli anni ’60 e ’70 e a Don Siegel in particolare).
Al netto di tutta la sovrastruttura ideologica, American Sniper è un bellissimo western, con tanto di duello a distanza tra due pistoleri nemici giurati, l’attacco al fortino e l’arrivo della cavalleria.
È un western, dice Recchioni, e gli farei un applauso. Ma, aggiungo io, non lo è soltanto per il duello tra i due pistoleri e nemmeno per l’attacco al fortino o per l’arrivo della cavalleria. Lo è proprio perché racconta una storia di uomini e di violenza dipingendola in bianco e nero, non sfumando nulla. I buoni sono buoni. I cattivi sono i cattivi: gli americani sono i buoni, i cattivi sono gli altri, questa volta non sono gli indiani, ma sono iracheni. È un western. Qualcuno si indignava quando John Wayne, dipinto come eroe, sparava ai Comanche, dipinti come bestie? No! E chiaro che no, era un film western. Non certo un trattato antropologico o il documento di una commissione d’inchiesta sul massacro dei nativi americani.
Tra l’altro, non è un caso che Recchioni associ a Eastwood un certo stile — classicissimo — à la John Ford, un altro regista, sempre di western e sempre conservatore.
Ora, magari voi non siete appassionati di western, e magari non sapete chi sia John Ford, ma quel John Ford lì non è solo uno dei più grandi maestri del western, è soprattutto uno dei più grandi registi di sempre, uno di quelli — e non sono pochi, è l’unico — che hanno vinto quattro Oscar come miglior regista. E credo che dobbiate sapere che una volta anche lui finì in una polemica simile a quella che sta investendo Clint Eastwood.
Era il 1956. John Ford aveva girato The Searcher, più famoso in Italia con il titolo di Sentieri selvaggi. Un film che ora è considerato uno dei capolavori assoluti del genere, uno dei capisaldi del western, insieme a Stagecoach (Ombre rosse) e The Man Who Shot Liberty Valance ( L’uomo che uccise Liberty Valance), tanto per citarne due.
Quando uscì Sentieri selvaggi, il film — riassunto superconcentrato: John Wayne che insegue i Comanche — fu accusato di razzismo verso gli indiani d’America, accuse che vennero mosse addirittura da Godard e da Sam Peckinpah, un altro che di western ne sapeva parecchie e che dopo il periodo di John Ford portò il genere due passi più in là, ma questa è un’altra storia.
A distanza di sessant’anni dall’uscita del film, le accuse di razzismo sono state messe da parte. Ora resta il capolavoro, conservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
Un’altra cosa, per avviarsi alla conclusione: American Sniper non è un film di propaganda, è soltanto un film che esprime la sensibilità e il punto di vista di un uomo anziano molto conservatore. Perché per essere un film di propaganda manca l’ingrediente fondamentale: manca la retorica.
È questa, in fin dei conti, la grande vittoria del vecchio Clint: ci racconta la storia di un soldato che, dopo aver vissuto la guerra — giusta o sbagliata che sia, non ci interessa, come non ci interessa qui se le armi chimiche di Saddam ci fossero o meno in Iraq — perde la propria umanità, ovvero la propria capacità di emozionarsi.
A proposito, Francesco Costa, sul suo blog sul Post, ha criticato duramente il film da un altro punto di vista. L’accusa di Costa a Clint Eastwood è quella di aver sprecato una buona occasione per raccontare una grande storia:
Al contrario di quello che racconta American Sniper, la storia di Chris Kyle non è la storia di Topolino: è la storia di un uomo con qualità militari formidabili e un carisma fuori dal comune che ha passato tre anni in guerra a fare cose dell’altro mondo che lo hanno distrutto. Avete presente quelle storie in cui non si capisce fino in fondo chi sono i buoni e chi sono i cattivi, in cui il protagonista non è un eroe-senza-macchia ma un essere umano? Quella è la storia di Chris Kyle. Per questo il primo trailer di American Sniper prometteva così bene: perché descriveva il tipo di irrisolvibile dilemma morale a cui è sottoposto un cecchino in guerra, e lasciava immaginare che tipo di conseguenze potesse avere su un essere umano passare tre anni così.
Chris Kyle non era uno che tornato dalla guerra sistemò tutti i suoi problemi con una visita di 7 secondi dallo psichiatra. E i suoi problemi non erano semplicemente aver paura dei rumori improvvisi.
Probabilmente è vero quel che dice Costa, Eastwood ha raccontato la storia di Chris Kyle un po’ come gli pareva, tagliando e omettendo. E allora?
È altrettanto vero, infatti, che Eastwood, costruendo un film talmente senza retorica da aver bisogno di un’ora perché lo spettatore inizi a provare dell’empatia verso Chris, ha fatto provare allo spettatore — anche me, che sono esattamente il contrario di un vecchio conservatore americano — lo stesso senso di spaesamento, gli stessi sbalzi tra l’adrenalina della guerra e l’apatia della vita quotidiana che probabilmente sono alla base di gran parte dei disturbi post traumatici da stress, quelli che mandano ai pazzi i soldati che tornano dalle guerre, per intenderci, quelli che hanno mandato ai pazzi Kyle, così come il veterano che lo ha ucciso.
Insomma, Clint Eastwood è un grande regista di 85 anni che ha saputo girare dei capolavori assoluti, da Gli spietati a Mystic River, da Gran Torino a The flag of our fathers. E anche con quest’ultimo, American Sniper, riesce in un piccolo capolavoro: girare un film su un eroe americano — per lui, non necessariamente per noi: io sono sempre stato dalla parte di Ettore, non di Achille, ma l’Iliade mi è sempre piaciuta molto — senza alcuna retorica. Un film di propaganda che non è un film di propaganda, ad eccezione dei titoli di coda, un montaggio di immagini di repertorio del funerale di Chris Kyle.