Ci sono storie che somigliano ai blocchi di marmo del tempio grande di Varsavia. Mastodontiche e stabili solo nei ricordi, in realtà sgretolate. Triturate e rase al suolo dal corso degli eventi. Sono storie che cominciano da qualche parte oltre il confine polacco all’epoca dello Zar, in uno Stetl di poche case fragili, costruite sulla certezza delle attese lunghe e delle fughe improvvise, e poi si spargono per il mondo. Berlino, Amsterdam, Londra, New York. Resistono nei racconti, nelle infinite ore di ricostruzione delle parentele, nelle testimonianze e nei commenti, nello studio perpetuo che è il tentativo di tenere insieme i destini spaiati dei protagonisti. Ricordano le vicende del popolo di cui fanno parte: hanno un’origine ma nessuno potrebbe dire con certezza quale sia, parlano una lingua che si somiglia ma che non è mai la stessa, sono state ovunque ma senza sentirsi mai a casa.
Quella della famiglia Singer è un insieme di studiosi e scrittori, uomini onesti, come si dice. Comincia in un villaggio chiamato Bilgoray, dove viveva un rabbino di nome Pichas Mendl Zinger, patriarca di una dinastia destinata a spezzarsi diverse volte prima di ritrovarsi e ricomporsi parzialmente solo per mettere insieme quanta memoria bastasse a non farla perdere di nuovo, e poi si sposta a Varsavia. Rav Zinger era sposato con Basheva Zylberman, il cui nome sarebbe rimasto in quello del suo erede più famoso: Isaac Bashevis Singer.
La prima a nascere e a scrivere è stata Esther, poi passata alle stampe con il nome del marito, Avraham Kreitman, un intagliatore di diamanti. Scriveva in yiddish, come avrebbero fatto i suoi fratelli, anche se aveva abbandonato la Polonia già nel 1913 per il Belgio e poi per Londra, dove avrebbe vissuto tutta la vita. Quella di Esther è una vicenda che si perde quasi subito, fatta di rimpianti e ritorni, di sofferenze e di repressioni. Nei suoi libri — soltanto tre, il più famoso dei quali si chiama Der Sheydimis Tants, tradotto in Deborah e pubblicato nel 1936 (in Italia per Baldini&Castoldi, 2012, col titolo Debora per la traduzione di Lorenza Lanza e Patrizia Vicentini) — descrive la condizione di oppressione della donna intellettuale nella società ashkenazita di fine Ottocento.
Il matrimonio combinato che l’aveva trascinata a soli ventun anni attraverso Paesi stranieri, in fuga da un’infelicità più che da una minaccia reale, sembrava averla marchiata con una sorta di malinconia permanente. Per due volte, finite le persecuzioni della Seconda Guerra Mondiale, è tornata alla ricerca della sua famiglia: prima in Unione Sovietica, per scoprire che il fratello minore Moyshe, sopravvissuto allo Sterminio, era morto nel 1946, e poi in Polonia dove però non c’era più nessuno. Suo figlio Morris, anche lui diventato uno scrittore conosciuto come Martin Lea, ha raccontato di come la madre avesse supplicato Bashevis di aiutarla a emigrare negli Stati Uniti, senza successo. Certo è che i due si sono ricongiunti nel 1947, solo per un breve periodo. Esther sopravvive nelle opere dei fratelli, nel racconto Yentl, in Satana a Goray (Longanesi, 2002 per la traduzione di Bruno Oddera) di Bashevis e in Yoshe Kalb (Adelphi, 2014 per la traduzione di Bruno Fonzi) di Israel Joshua.
Sono due in particolare, i romanzi in cui è possibile ricercare tracce della famiglia Singer. Due pezzi unici, appesantiti dall’incombenza della necessità di raccontare e resi leggeri dalla finzione, che seguono i propri protagonisti attraverso le loro fughe: dall’ignoranza prima e dalla persecuzione poi. La famiglia Karnowski (Adelphi, 2013, tradotto da Anna Linda Callow) di Israel Joshua, nato nel 1893, è un lungo testamento che percorre la storia di tre generazioni di ebrei polacchi emigrati a Berlino alla ricerca di un ambiente intellettuale riformato e stimolante. Tra interpretazioni rabbiniche dei testi sacri e il pragmatismo delle esplorazioni sessuali, il romanzo diventa una testimonianza intima velata, ma non per questo indecifrabile. I protagonisti sono costretti a confrontarsi con i pregiudizi e con la Tragedia, che porterà la famiglia a rifugiarsi in America negli anni Trenta. Anche Israel, secondogenito di rav Zinger, era emigrato in America nel 1934. Qui avrebbe pubblicato il suo maggior successo, I fratelli Ashkenazi (Longanesi, 2004, traduzione di Bruno Fonzi) e sarebbe morto a soli cinquant’anni, nel 1944. Senza il privilegio di veder finire i tempi bui.
Quello dei Karnowski è un tassello, poi ripreso e completato idealmente con La famiglia Moskat (Corbaccio, 1995, tradotto da Bruno Fonzi) dall’ultimo dei Singer, Isaac Bashevis, che si incastra in un mosaico di indizi diffusi nella ricchissima produzione complessiva dei tre fratelli.
Non ci sarebbe nemmeno bisogno di descrivere Bashevis, riconosciuto come il più importante scrittore yiddish della letteratura moderna, premio Nobel nel 1978, traduttore di Gabriele D’Annunzio e Knut Hamsun negli anni Venti, intellettuale influente e studioso infaticabile. Le prime versioni in inglese dei sui scritti hanno cominciato a circolare verso la fine degli anni Trenta, quando Bashevis, seguendo le orme di Israel, aveva cominciato a collaborare come corrispondente estero del quotidiano Forverts , diffuso negli Stati Uniti. È qui che dal 1945, ormai rifugiato e avendo ottenuto la cittadinanza americana, ha cominciato a pubblicare la saga dei Moskat in memoria del fratello, morto da appena due anni, che attraversa mezzo secolo di storia ebraica dell’Est, tessendo un intrico di relazioni tanto affascinante quanto complesso. Per la prima volta, Bashevis ha messo per iscritto la testimonianza di un intero popolo attraverso lo svolgimento di una discendenza, ha tracciato la realtà a lui contemporanea, dipingendola nelle contraddizioni ideologiche, religiose e esistenziali di una famiglia di commercianti di Varsavia, destinati al fallimento in poche generazioni sotto lo sguardo severo del patriarca Meshulam. Senza risparmiare niente ai suoi lettori tanto che, per amore del realismo, le pubblicazioni della saga, ritenuta inappropriata, sono state sospese per due volte da Forverts, per essere poi riprese a furor di popolo.
Bashevis Singer è stato una voce fondamentale per la storia ebraica d’Europa, senza la quale gran parte della memoria sarebbe andata perduta nell’orrore della Tragedia. È stato il punto di rottura con la tradizione antica, che ha trascinato lo yiddish nella modernità mantenendo intatto quell’umorismo che è stato la salvezza di una tradizione, ma anche un esponente importantissimo della memoria storica. In diciotto romanzi e quasi duecento racconti brevi è stato in grado di fare da punto di incontro per una generazione di scrittori altrimenti perduta, quella dei reduci, di cui hanno fatto parte Esther e Israel, ma anche Abraham Sutzkever e Aaron Zeitlin. Eredi di una lingua non più riconosciuta — con la nascita della Stato di Israele, lo yiddish non viene più considerato come lingua ebraica — che ha finito per diventare il dialetto universale di chi non aveva mai avuto una Patria e non era pronto a costruirne una dal nulla. Con parole sue: «Mi piace scrivere storie di fantasmi e non c’è niente di più azzeccato per le storie di fantasmi che una lingua morente. Più la lingua è moribonda, più i fantasmi sono vitali. I fantasmi amano lo yiddish, lo parlano tutti».
Con la morte di Bashevis, nel 1991, si chiude la storia di una dinastia di scrittori, formata sullo studio della Torah ed evoluta nell’osservazione del presente. Un presente doloroso e difficile, ma non per questo meno adatto all’ironia pungente che per millenni ha fatto da guscio protettivo per un popolo perseguitato, ma mai condannato. «Credo nella reincarnazione — ha detto Bashevis all’accettazione del Nobel — e sono sicuro che presto il Messiah verrà e migliaia di cadaveri yiddish si alzeranno dalle loro tombe. La prima cosa che chiederanno sarà: “C’è qualche nuovo libro che vale la pena di leggere?”». La voce della famiglia Singer è la voce di migliaia di ebrei europei in movimento, non necessariamente in fuga. Inizia in Polonia e finisce in America, come tante e come tante va ricostruita attraverso gli indizi nascosti nei ricordi. Somiglia al Tempio grande di Varsavia, solo che è ancora tutta lì, da leggere.