«Il futuro non sarà come 1984, sarà molto peggio»

«Il futuro non sarà come 1984, sarà molto peggio»

George Orwell è veramente uno di quegli autori che non hanno bisogno di presentazioni. Anche perché 1984 e La fattoria degli animali, anche a causa della scuola dell’obbligo, sono probabilmente i libri più letti dagli italiani negli ultimi trent’anni e le immaginazioni distopiche di Orwell sono entrate a far parte di un immaginario collettivo ben più ampio di quel 40 per cento di italiani che, secondo le ultime e sempre più terrificanti statistiche dell’Istat, avrebbero aperto almeno un libro durante gli ultimi dodici mesi.

Orwell, nato in India nel 1903 con il nome di Eric Arthur Blair, è diventato una delle pietre miliari della letteratura del Novecento grazie anche soprattutto alla sua straordinaria capacità di intravedere, dalle nebbie di un’Europa che si rialzava ferita e rintronata da due guerre mondiali, i pericoli della nostra civiltà di massa, iper-sicurizzata, senza privacy e privata della libertà di pensiero e di espressione. 

Oggi ricorre l’anniversario della sua morte, avvenuta il 21 gennaio del 1950, a soli 47 anni. Sono passati 65 anni, e tanti ne bastano su questa terra per essere considerato anziano. Eppure, nelle parole di George Orwell si trova ancora oggi una lucidità di visione e di previsione impressionanti.

Orwell, nato in India nel 1903 con il nome di Eric Arthur Blair, è diventato una delle pietre miliari della letteratura del Novecento grazie anche soprattutto alla sua straordinaria capacità di intravedere, dalle nebbie di un’Europa che si rialzava ferita e rintronata da due guerre mondiali, i pericoli della nostra civiltà di massa, iper-sicurizzata, senza privacy e privata della libertà di pensiero e di espressione

Secondo lei come sta l’Umanità, di questi tempi?
Per rispondere a questa domanda ti racconto la storia di quando, da piccolo, ho commesso una crudeltà terrificante nei confronti di una vespa: mentre era intenta a succhiare la marmellata dal mio piatto l’ho tagliata in due. Però non se n’è accorta e ha tranquillamente continuato a mangiare, mentre un sottile rivolo di marmellata le colava piano dall’esofago mozzato. Solo quando ha provato a volare si è resa conto della tragedia che le era capitata. Be’, io credo che all’uomo sia successa la stessa cosa; solo che a lui è stata recisa l’anima, ma per un certo periodo — una ventina d’anni, forse di più — non se n’è accorto.

Cos’è che abbiamo perso, insieme all’anima?
No, no aspetta, fammi precisare una cosa: l’amputazione dell’anima era assolutamente necessaria. La fede religiosa, nelle forme a noi note, doveva essere abbandonata. Nel diciannovesimo secolo la fede era già sostanzialmente diventata una menzogna, un espediente più o meno consapevole per far sì che i ricchi continuassero a essere ricchi e i poveri poveri. L’intero tessuto sociale del capitalismo era intriso di questa menzogna, ed era assolutamente necessario squarciarne il velo. Ecco perché c’è stato un lungo periodo in cui quasi tutti gli uomini ragionevoli sono stati in un certo senso dei ribelli e, in genere, dei ribelli del tutto irresponsabili.

E ora?
Be’, per duecento anni non abbiamo fatto altro che segare con accanimento il ramo su cui stavamo seduti. «E ora?» mi chiedi. Eh, ora, con una rapidità che nessuno si aspettava, i nostri sforzi sono stati premiati e siamo caduti giù. Purtroppo però c’era stato un piccolo errore di valutazione: sotto di noi non c’era un’aiuola di rose, ma una fogna piena di filo spinato.

Mi sta dicendo che secondo lei, in fondo, si stava meglio prima?
No, no. Io non voglio certo che torni la fede in una vita ultraterrena. Voglio però sottolineare che tale scomparsa ha lasciato un grande vuoto, e che dovremmo tenerne conto. L’uomo è stato educato per migliaia di anni al concetto che l’individuo sopravvive. Ora deve compiere un notevole sforzo psicologico per abituarsi all’idea che invece l’individuo si estingue, che è piuttosto la specie che sopravvive.

Forse quella fede non sta tornando in Occidente, ma nel mondo diremmo proprio di sì. Pensi soltanto all’Isis, ad Al Qaeda, ai fondamentalismi…
Lo so, ma so anche che difficilmente saremo in grado di salvare l’Umanità se non saremo in grado di elaborare un criterio di Bene e Male che prescinda il Paradiso e l’Inferno. E chiaramente hai ragione. È come se nello spazio di dieci anni o poco più fossimo scivolati nuovamente nell’età della pietra. Tipi umani che pensavamo estinti da secoli — il derviscio danzante, il capo dei predoni, il Grande Inquisitore — sono ricomparsi all’improvviso, ma non come pazienti di un ospedale psichiatrico, bensì come padroni del mondo.

1984 – First British Edition, 1949

Questi nuovi fondamentalismi sono i primi che riescono a integrarsi perfettamente — e a sfruttare — le armi della modernità e del progresso, è una cosa inedita, dobbiamo averne paura?
Sì, è vero quello che dici, è come se fossimo di fronte a un paradosso: il paradosso è che insieme alla fede, ovvero la tradizione, è stata la meccanizzazione, ovvero il progresso, che ci ha condotto all’incubo che ora ci affligge: guerre interminabili e fame interminabile, popolazioni che lavorano in condizioni di schiavitù dietro recinzioni di filo spinato, donne urlanti trascinate al ceppo dell’esecuzione, celle sotterranee insonorizzate col sughero dove il boia ti fa saltare il cervello sparandoti alle spalle.

E per il futuro? Mi permetta di farle la domanda che tutti vorrebbero farle: somiglierà sempre di più a quello che si era inventato per 1984?
Purtroppo sì, è già pazzescamente simile. Il futuro a cui ci stiamo avviando somiglia all’Inquisizione spagnola, e forse, grazie ai nuovi media e alle varie polizie segrete, a qualcosa di molto peggiore. Avremo ben poche possibilità di evitare questi sviluppi se non riusciremo a ripristinare una fede nella fratellanza umana che non abbia bisogno di essere avvalorata da dimensioni ultraterrene.

«Il futuro a cui ci stiamo avviando somiglia all’Inquisizione spagnola, e forse, grazie ai nuovi media e alle varie polizie segrete, a qualcosa di molto peggiore»

Quindi sarà la fine delle libertà che abbiamo conosciuto nel Novecento, a cominciare dalla libertà di pensiero?
No, aspetta, ho detto che il capitalismo liberale si sta palesemente avviando al capolinea, e forse avrò dato l’impressione di suggerire che anche la libertà di pensiero sia inevitabilmente condannata. Ma non credo che sia così, e in conclusione dirò semplicemente che sono convinto che le speranze di sopravvivenza di questo tipo di libertà — e quindi della letteratura, per esempio — siano da ricercare in quei paesi in cui il liberalismo ha radici più profonde. Io credo — ma potrebbe anche essere una pia illusione — che, quantunque sia destinata ad affermarsi un’economia collettivizzata, questi paesi sapranno sviluppare una forma non totalitaria di socialismo in cui la libertà di pensiero riesca a sopravvivere alla scomparsa dell’individualismo economico.

Questa è l’unica speranza a cui può aggrapparsi chi abbia a cuore la libertà di pensiero, e in particolare la letteratura. Chiunque ne avverta il valore, chiunque comprenda il ruolo centrale che la letteratura svolge nello sviluppo della storia umana, deve anche comprendere che la resistenza al totalitarismo, sia esso imposto dall’esterno o dall’interno, è questione di vita o di morte.

Lei è sempre stato abile a prevedere il futuro. Cosa vede nella sua sfera di cristallo per il 2015?
Ah ah ah (ride, ndr), la mia sfera di cristallo… Ok, se scruto la mia sfera di cristallo vedo disordini in Cina, in Grecia, in Palestina, in Iraq, in Egitto, nel corno d’Africa, in Argentina e in qualche decina di altri paesi. Vedo guerre civili, attentati dinamitardi, esecuzioni pubbliche, carestie, epidemie e revival religiosi. Gli incontri tra i ministri degli Esteri attualmente in corso saranno un fiasco e porteranno solo a dichiarazione altisonanti e a un aumento generalizzato della conflittualità. Dopodiché, pur se con illusori intervalli di apparente miglioramento, la situazione internazionale continuerà a peggiorare. Questo sarà dovuto al fatto che nessuno vuole perdere potere, pur non essendo ancora pronto per un’altra guerra, ragion per cui seguiterà la generale tendenza alle «zone di influenza» a scapito della cooperazione.

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