Se davvero ci sarà, come si minaccia, la scissione nel Pd, le anime che trasmigreranno nel nuovo partito (una cosa rossa cofferatiana? Un’organizzazione civatiana?) avranno bisogno di tante cose. Di un programma, senza dubbio, di qualche voto – che non fa mai male –ma soprattutto, di un nuovo inno. Non c’è più tanta voglia di cantare, da quelle parti.
Ma cosa possono scegliere? Sono passati i tempi in cui si marciava contro “i re della miniera e della ferrovia”, che “mai hanno fatto altra roba che derubare il lavoro”. Poche parole, ma molto chiare. In tempi di Jobs Act, meglio lasciar perdere.
Sarebbe bella una canzone che parli di riscossa e di trionfo, magari nata dal popolo, in cui tutti sono radunati sotto una bella bandiera, ma purtroppo esiste già. L’hanno già usata.
E allora, per combattere l’invasore, servirebbero liriche di sacrificio che richiamino l’eroismo partigiano? Buona idea, ma anche questa c’è già. L’hanno usata a Occupy Wall Street, l’ha scelta François Hollande, l’hanno riproposta a Piazza Taksim, nel 2013, e l’hanno cantata anche a Hong Kong. È tornata anche per la commemorazione funebre delle vittime della strage di Charlie Hebdo. Insomma, è un patrimonio troppo comune per essere distintivo. E sarebbe anche un peccato.
Del resto, i tentativi di dare musica alla politica sono stati sempre molto traballanti: dopo che Berlusconi ha sfondato con l’inno di Forza Italia, da sinistra si sono visti costretti a ricorrere alla canzone d’autore. Prodi ha pescato bene, scegliendo nel 1996 la Canzone Popolare di Ivano Fossati, che ha portato fortuna.
Ma il calo è cominciato con l’epoca di Veltroni. Sia dal punto di vista estetico-musicale che in termini di voti. Non ha funzionato la svolta pop con Jovanotti.
Cosa sei disposto a perdere? Glielo aveva detto anche lui: “Guarda che non funziona: è una canzone sulla perdita”.
Allora ci ha provato con Rino Gaetano, con tanto di trasformazione cromatica di un partito che voleva diventare americano: colore blu, slogan in inglese (“I care”, ci torneremo). Le percentuali però restano molto italiane.
E nemmeno il tentativo (disperato) di una cover aiuta a risolvere la soluzione:
Finisce l’epoca della musica in politica? Magari. Arriva Bersani e riunisce la sinistra sotto l’inno di Gianna Nannini. Si intitola “Inno”, per esserne sicuro.
Quello ufficioso, però, è quest’altro:
E non stupisce che il Partito fosse finito in crisi, dal momento che l’inno derivava da una battuta di Crozza, che tralaltro lo prendeva in giro, Bersani.
Insomma, c’è voluto Matteo Renzi per dare una svolta anche sul piano musicale. Da buon democristiano, ha pagato il dazio di un inno ufficiale (questo), ma si è riscattato ripescando Jovanotti e il suo Big Bang e, soprattutto, rilanciando l’idea che ha del partito, dell’Italia in generale e delle convinzioni di Veltroni. Così:
Cosa resterà, allora, ai prodi scissionisti, se mai esisteranno? Quando cercheranno di riprendere in mano il partito, o di dare una svolta alla sinistra italiana, si ricordino che bisogna ricominciare da qui.