Trovare i nomi degli ormai noti 101 franchi tiratori che affossarono Romano Prodi il 19 aprile del 2013 nella corsa al Quirinale non è un esercizio semplice. Forse non si sapranno mai con esattezza, nascosti dal voto segreto. Ma le aree, le correnti e gli identikit dove si annidarono i cecchini del professore di Bologna non sono più un tabù, basta ripescare alcuni libri sulla vicenda e andare a riprendersi le dichiarazioni uscite all’indomani della “strage quirinalizia”, come notare che con la fine di Prodi e (di Pier Luigi Bersani ndr) di fatto di aprirono le porte alla larghe intese e al patto del Nazareno di Matteo Renzi con Silvio Berlusconi.
Si tratta in sostanza di una maionese impazzita, dove deputati e senatori si mossero per motivi diversi e differenti, tra questioni personali e politiche, ma che alla fine si rimescolò e ricompattò contro un unico avversario, appunto Prodi. In pratica a impallinare il professore furono più di 101 gradi elettori. E i voti contrari, mettendo insieme i tasselli, arrivarono in particolare dai fedelissimi di Matteo Renzi – come ha sottolineato lo stesso Stefano Fassina giovedì 22 gennaio («Renzi fu il regista») – dagli uomini di Dario Franceschini, dagli ex Ds vicino a Massimo D’Alema con a capo l’ex tesoriere Ugo Sposetti, che fu beccato a fare telefonate contro il prof, dagli uomini di Beppe Fioroni e pure da alcuni Giovani Turchi.
Lo sa bene Bersani, all’epoca presidente del Consiglio incaricato, che dopo quella “maledetta” quarta votazione fu messo alla porta. Lo sanno bene Chiara Geloni e Stefano Di Traglia, scudieri bersaniani, che ci hanno scritto un libro «Giorni Bugiardi» dove raccontano delle faide del Pd di quei giorni. Lo sa bene pure Sandra Zampa, prodiana di ferro, che nel libro «I tre giorni che sconvolsero il PD» ha messo in fila le fasi che decisero l’affossamento del professore di Bologna. I nomi, insomma, resteranno sempre appesi al segreto dell’urna, con deputati e senatori pronti a smentire o a querelare nel momento in cui vengono tirati in ballo. Ma le correnti ci sono. Lo stesso Marco Damilano, giornalista de L’Espresso, le ha provate a riassumere in un altro manuale «Chi ha sbagliato più forte», stigmatizzando in tre categorie «chi segò Prodi», ovvero i Dubbiosi, gli Scettici e i politicamente Lucidi.
«L’esercizio è partire da chi di sicuro non fu tra i congiurati – spiega a Linkiesta un senatore dem su richiesta di massima riservatezza -. E di certo c’è che a quella faida non parteciparono i bersaniani, i lettiani e i civatiani. Non solo. Aggiungo che tra i deputati del Pd a votare contro non furono solo in 101, ma molti di più, perché per Prodi ci furono anche i voti di alcuni esponenti del Movimento Cinque Stelle e di Scelta Civica». La convinzione è dello stesso Bersani, come hanno riportato nel loro libro gli stessi Geloni e Di Traglia. «Anzi, Bersani è convinto che 101 sia una cifra approssimata per difetto» si legge «perché da qualche parte un po’ di voti sparsi su Prodi sono arrivati’ e quindi quelli del Pd che mancano all’appello sono di più». La Geloni in un blog di venerdì 23 gennaio annuncia che «nei prossimi giorni tutto sarà ricordato» ricorda alcuni passaggi del libro e aggiunge: «Siamo solo all’inizio di una lunga settimana».
Bisogna partire dai buoni, in sostanza, da chi rimase fedele a quanto detto la mattina del 19 per capire come si mossero le truppe democratiche quel giorno. Anche se su questo punto ci sono pareri differenti, perché secondo altri deputati anche in questi fedelissimi del professore potrebbero trovarsi dei traditori, di sicuro di meno che in altre correnti. E’ comunque un esercizio utile, perché i 496 grandi elettori del centrosinistra di allora, che ora sono anche di più dopo l’arrivo di qualche ex grillino, sono gli stessi che la prossima settimana dovranno eleggere il nuovo presidente della Repubblica, rischiando di innescare una nuova stagione di faide. Questione che dà quindi la tara sullo stato di un partito «alla frutta» per dirla come la senatrice Lucrezia Ricchiuti, ormai spaccato di fronte a un segretario del Pd come Matteo Renzi sempre più impegnato nella difesa del patto del Nazareno con Silvio Berlusconi.
Continuando nell’esercizio consigliato dal senatore democratico, a non votare contro Prodi fu la maggior parte di deputati vicini a Pier Luigi Bersani, quelli di Enrico Letta, di Pippo Civati e Rosi Bindy. In un grafico dell’epoca di Youtrend i bersaniani rappresentavano la maggioranza relativa, il 35%, poi veniva l’Areadem di Dario Franceschini, Beppe Fioroni e Valter Veltroni, il 23%, poi i«Renziani» che costituivano il terzo gruppo (13%), seguiti dai «Lettiani» (6%). «D’Alemiani» e «Giovani Turchi» seguono appaiati (4,5%), così come «Bindiani» e «Civatiani» (2% e 1,5%). E di questo amalgama impazzito vanno pure citate le ebollizioni, da chi voleva diventare presidente della Camera come Dario Franceschini a chi, come Massimo D’Alema, ambiva invece a diventare Mr Pesc. Accordi sottobanco e incroci letali che danno bene l’idea della famiglia dei lunghi coltelli del Partito Democratico.
La convinzione di chi ha seguito la vicenda del famigerati 101, comunque, è che non ci sia stata una regia unica dietro la caduta di Prodi. Lo ha spiegato la stessa Zampa in un’intervista a Famiglia Cristiana venerdì 23 gennaio, correggendo in parte Fassina sulla regia unica renziana: «Tutte le componenti hanno partecipato, altrimenti non si arrivava a 101. Renzi ne aveva 50-60 all’epoca e non aveva incarichi nel partito. Dopo sono diventati tutti renziani». E allo stesso tempo la Zampa nel suo libro tratteggia così quell’area che si ritrovò coesa contro il professore: «C’era chi pensava di dover vendicare Mariniper la mancata elezione nelle prime votazioni; quelli che pensavano si dovesse dare una possibilità a D’Alema; quelli che erano convinti che l’elezione di Prodi avrebbe portato rapidamente alle urne: quelli che volevano un’alleanza di governo larga, estesa al Pdl e vedevano in Prodi un chiaro ostacolo». Di certo alle Idi di aprile parteciparono i dalemiani, tanto che fu D’Alema a chiamare Prodi in Mali per annunciargli che non ce l’avrebbe fatta. Continua a il senatore democratico: «Mettendo insieme una ventina di franceschiniani, una decina di giovani turchi, una decina di fioroniani, un’altra decina di dalemiani arriviamo così quasi a cinquanta voti. Mancano giusto i cinquant’uno di Renzi….». E il mistero insomma non è più un mistero. E in tempi di Nazareno viene in mente la celebre frase: «Chi ha peccato scagli la prima pietra».