Con il vostro permesso, scriverei di Wolinski. Ci sono due modi per metterla giù, in questi giorni. Il primo è compilativo, tanto per tappare il buco e fare sapere a tutti che sappiamo di cosa stiamo parlando. L’altro è di pancia. A conti fatti, è quasi meglio il secondo. Dato che i miei tentativi di sintetizzarli entrambi in un unica versione sono fin ora miseramente falliti e ho finito per mettere opinioni e sensazioni personali nella fredda biografia e mischiare con fatti e aneddoti marginali il racconto del mio rapporto con Wol, alla fine ho deciso per la terza via: tenere le versioni separate e includerle entrambe nello stesso articolo. Eccole qui.
Prima versione: Georges Wolinski, fumettista. Generalmente il suo nome è associato a vignette procaci e ammiccanti, donne mezze nude e generose che si aggirano per lo spazio conosciuto e sconosciuto alla ricerca di qualcosa che non sanno ma che finisce sempre per sfociare nel sesso. Aveva incominciato a diventare famoso in un momento agitato, proprio come quello in cui ha deciso di morire: alla fine degli anni Sessanta, su una rivista chiamata Action. Pubblicava da sempre su Charlie Hebdo, da quando si chiamava Hara-Kiri, nei primi anni Settanta. Noi ce lo abbiamo in mente per Paulette, che leggevamo su Linus in un misto di clandestinità, vergogna e eccitazione. Quei vestiti stracciati erano materiale da torcia e coperte, da porte chiuse a chiave del bagno e primi fugaci secondi di erotismo per interposta persona — per me tutto questo ha funzionato in differita, ma non con meno intensità. Era nato da un fuggiasco, perseguitato e derelitto del quale non sappiamo quasi niente se non che anche lui è morto assassinato in un giorno del 1937 — «il fantasma di mio padre mi perseguiterà per sempre», diceva Wol — e di una tunisina, anche lei perseguitata, si suppone, per motivi religiosi. Disegnava e scriveva, scriveva e disegnava. Quando scriveva di solito disegnavano gli altri, primo tra tutti Georges Pichard. Nel 2005 aveva vinto il Grand Prix d’Angoulême. Divideva le scrivanie e l’ironia con Moebius e Reiser, tra gli altri. Roland Topor lo aveva portato ad Hara-Kiri, inchiodandolo per sempre alla storia del fumetto francese, europeo e mondiale.
È morto ucciso, per motivi che non sappiamo comprendere fino in fondo, nella redazione di Charlie Hebdo.
Seconda versione: Georges Wolinski, fumettista. In questi giorni tutti si fermano a pensare a quanto se ne fregasse della religione. Anzi, a quanto la affrontasse continuamente, feroce e sarcastico. Paladino di una strana laicità involuta e sprezzante, buttata là in mezzo per vendicare le vittime, senza sapere che anche lui sarebbe diventato una vittima, un giorno, a nemmeno ottant’anni. In un’intervista con Fulvio Abbate, reprimendo quello che sembra il cordoglio per la domanda «qual è il futuro dell’umanità?», aveva risposto: «Mi domando se l’umanità ha un futuro. So per certo che il mio destino è quello di morire, un giorno» e la responsabile di questo dubbio non poteva che essere quella religione che poi lo avrebbe preteso a sé.
Tutti vogliono un pezzo di Wolinski in questi giorni, tutti lo rivendicano come loro. Gli ebrei dicono che era un bravo ebreo, gli italiani lo prendono per una manica per strapparlo al Nord Africa, i francesi si ricordano di lui tutto un tratto. Però nessuno fa più caso alle offese, alle volte che avrebbero voluto metterlo al muro per quello che scriveva e per quello che diceva. Alle volte che non hanno capito che scherzava, sulle donne, su dio, sull’amore. Noi fumettisti a tempo perso abbiamo sentito il cuore sprofondare in un abisso quando i giornali hanno cominciato a riportare i nomi delle vittime della strage di Charlie Hebdo, ci siamo sentiti mancare come se una colonna portante fosse appena stata abbattuta e il terreno cedesse da una parte. E non perché lo capissimo o lo apprezzassimo più degli altri. Ha scritto bene Roberto Gagnor, era uno che faceva il nostro mestiere e che in vita non ha voluto altro che far ridere la gente. Esagerando, anche, perché no? Uscendo dal seminato e dai binari in un modo che io stesso, a pensarci ora, non sempre gli ho perdonato. Tante volte l’ho messo da parte, tante volte mi ha amareggiato per quelle posizioni nette e trancianti che raramente trovano spazio nella mia visione, sempre moderata, delle cose.
Non era un moderato, ecco. Non si tratteneva su niente e non lasciava niente all’immaginazione. In tutto quello che faceva c’era un pezzo di pelle nuda in più, una forma più rotonda e accentuata, una battuta più caustica. Correva come un pazzo su doppi sensi che non lasciavano spazio al dubbio e se qualcosa non era abbastanza chiaro lo disegnava, per renderlo impossibile da fraintendere. Gli piacevano le donne (che «sono come i sigari, il primo terzo è la parte migliore»): è chiaro. Odiava i fanatismi: è palese. Il suo racconto della vita passava attraverso la forzatura del grottesco. Le donne erano al centro di qualsiasi vicenda come motore unico alimentato a fischi di apprezzamento, costruito su un tasso tale di biondezza e ingenuità da portarlo spesso sull’orlo della critica sociale — quella che adesso chiamano “perbenismo”, ma che fino alla scorsa settimana avrebbero definito “buonsenso” — ma tutto intorno c’erano gli uomini: animali pelosi e per la maggior parte imbecilli, acciecati dalle passioni materiali e trascinati dalla libido e dalla furia politica. Gli uomini erano l’espressione più alta della fesseria, artefici di tutti i disastri dell’umanità e patetici incoscienti. Senza mai giudicare, ma sempre tenendo il dito puntato.
È sbagliato che oggi Wolinski venga ricordato come una vittima, perché per tutta la vita aveva vissuto da uomo libero e le vittime non saranno mai libere. È sbagliato che il suo nome venga associato per sempre a quello dei suoi assassini, al ricordo di un momento terribile per la Francia e per l’Europa, perché queste cose non facevano per lui.
C’è una terza versione, molto più sintetica, di come si sarebbero potute scrivere queste cose senza perdersi in facili lirismi.
Terza versione:
«Come è morto Wolinski?»
«Ucciso»
«Me lo aspettavo. Chi lo ha ucciso?»
«Della gente che non lo conosceva»
«Mi aspettavo anche questo. E perché lo hanno ucciso?»
«Pensavano di doversi ritenere offesi»
«Rois des cons!»
«Già».