ROMA – Tantissimi doveri e nessun diritto. È la grottesca situazione in cui versano circa 7mila specializzandi “non medici” di area sanitaria in Italia. 470 in Sicilia. 591 in Campania. Biologi, veterinari, odontoiatri, farmacisti, chimici, fisici e psicologi. Tutti, al pari dei “camici bianchi”, con l’obbligo di possedere un titolo di specializzazione per accedere ai ruoli dirigenziali del sistema sanitario nazionale, così come recita il decreto legge 502 del 1992, ma senza una borsa di studio o un rimborso spese.
I doveri, invece, ci sono tutti. Frequenza a tempo pieno, timbratura del cartellino, svolgimento delle analisi di routine, svolgimento dei turni e pagamento di tasse universitarie annuali (non meno di 1000 euro l’anno). Insomma: un lavoro. Non pagato. Secondo il più classico dei sistemi all’italiana. Con la conseguenza che un farmacista o un veterinario che voglia aspirare ad un ruolo dirigenziale nel sistema sanitario dovrà farsi carico di tutti i costi della scuola di specializzazione per cinque anni sacrificando risorse e chance di lavoro.
Non solo. La scuola di specializzazione, oltre a non prevedere alcuna borsa di studio, non prevede alcun contratto, nessuna copertura previdenziale e nessun diritto alla maternità e alla malattia. Una situazione che rende tantissimi laureati dei professionisti di serie B rispetto ai più “blasonati” medici. «Devo lavorare doppio – denuncia Antonio Guerrera, uno dei tanti soci del C.I.S.A.S., il Coordinamento Italiano Specializzandi di Area Sanitaria – dopo i corsi alla scuola di specializzazione, per mantenermi, faccio i turni di notte in farmacia. Perché i medici vengono retribuiti e noi no?».
Eppure la normativa di riferimento parla chiaro. In ottemperanza a una direttiva europea dell’83, un decreto ministeriale del 1 agosto del 2005 del MIUR equipara di fatto i laureati specializzandi nelle professioni sanitarie ai medici. Il decreto ad oggi è rimasto lettera morta. «Di questa discriminazione sono a conoscenza sia il C.U.N (Consiglio Universitario Nazionale) che il C.R.U.I. (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) – denuncia a Linkiesta Andrea Morello, coordinatore del C.I.S.A.S. –. Dai tavoli tecnici organizzati periodicamente dal MIUR per il riassetto delle scuole di specializzazione noi rappresentanti degli specializzandi non medici siamo sistematicamente esclusi. Una discriminazione assurda».
A complicare il quadro la sospensione da anni in molte regioni dei bandi per l’accesso alle scuole di specializzazione. Sospensione che contravviene alla legge 401 del 2000, secondo la quale «il numero dei laureati […] iscrivibili alle scuole è determinato ogni tre anni secondo le modalità previste per i medici». Tre anni che in alcuni casi diventano lustri o decenni.
Ad arginare questa deriva normativa ci aveva provato nel 2013 il Consiglio di Stato. Con la sentenza 6037 del 17 dicembre, il massimo organo della giustizia amministrativa aveva infatti accolto il ricorso presentato da molti laureati contro una decisione del Tar del Veneto che rigettava la richiesta di riaprire i bandi delle scuole di specializzazione dell’Università degli studi di Padova bloccati da più di tre anni. Situazioni analoghe erano state segnalate anche in Friuli, Toscana, Emilia Romagna e Marche.
In quell’occasione il Consiglio impose al Ministro della salute, di concerto col MIUR e col Ministro dell’economia, di riattivare i corsi di specializzazione entro 90 giorni e soprattutto di assegnare borse di studio agli specializzandi non medici «nell’ambito delle risorse già previste», così come recita la legge 401 del 2000. Ma per ora il Ministero non ha recepito il dispositivo della sentenza. Una linea dettata con ogni probabilità dalla volontà di non creare un pericoloso precedente nella giurisprudenza amministrativa. Risultato: migliaia di specializzandi senza un soldo e bandi sospesi fino a data da destinarsi.