Il Jobs Act e le promesse di licenziamenti più facili hanno mandato in confusione i datori di lavoro. Dal 1 gennaio 2015 in tanti stanno assumendo a tempo indeterminato pensando di sfruttare non solo gli sgravi contributivi previsti dalla legge di stabilità, ma anche le tutele crescenti del Jobs Act. Il problema è che il decreto delegato con il contratto senza articolo 18 è ancora un foglio volante che vaga tra le stanze di maggioranze, minoranze e sindacati. Bisognerà aspettare la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale perché sia effettivo, cosa che avverrà presumibilmente dopo il consiglio dei ministri del 20 febbraio. Il bonus di tre anni per i neoassunti per un massimo di 8.060 all’anno è invece valido dal 1 gennaio 2015. Se a questo aggiungiamo gli annunci renziani della vigilia di Natale sulla “rivoluzione copernicana” che ci sarebbe stata a partire dal 2015, la frittata è fatta.
«Il messaggio che è passato è che da gennaio ci sarebbero state le tutele crescenti e l’esonero contributivo», dice Michele Tiraboschi, coordinatore del Centro Studi Adapt. E chi non è un tecnico, o non si appoggia a studi di consulenza, ha finito per assumere approfittando degli sgravi contributivi, pensando di avere anche maggiore libertà di licenziamento. Un esempio lampante è stato l’annuncio fatto dal vicepresidente della Confindustria Veneto Luciano Miotto, titolare di un’azienda che produce lavatrici industriali nel trevigiano: «Grazie al Jobs Act il 7 gennaio assumerò con contratto a tempo indeterminato e a tutele crescenti il 4% della mia forza lavoro». Cosa che era impossibile: semplicemente perché il contratto a tutele crescenti ancora non esiste.
Molti imprenditori hanno pensato che il nuovo regime fosse già operativo dal 1 gennaio di pari passo con l’esonero contributivo della legge di stabilità
«Molti come me», racconta un imprenditore, «hanno assunto dopo l’uscita dei primi decreti a inizio 2015 pensando che ci fosse già il contratto a tutele crescenti». E questo spiegherebbe, almeno in parte, l’aumento delle assunzioni. Spinte anche, di certo, dagli sgravi contributivi previsti per i neoassunti. «Il fatto che le imprese abbiano già cominciato ad assumere dal 1 gennaio dimostra anche che ciò che interessa non è l’incentivo normativo ma la riduzione del costo del lavoro», aggiunge Michele Tiraboschi. I rubinetti, tra l’altro, non resteranno aperti all’infinito: terminate le risorse stanziate (un miliardo di euro per le assunzioni del 2015), l’effetto potrebbe esaurirsi. E la previsione è che questo avvenga in non più di sei mesi, cioè entro luglio 2015. Anche perché bisognerà capire quanto di questo miliardo resterà per le assunzioni con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che partiranno da marzo.
I primi dati sulle nuove assunzioni sono arrivati dall’Osservatorio sul mercato del lavoro della Provincia di Milano. A gennaio 2015, rispetto allo stesso mese del 2014, i contratti a tempo indeterminato nella provincia che conta il maggior numero di avviamenti al lavoro sono aumentati del 23,3 per cento. «Una variazione del tutto anomala che non si vedeva da anni», dice Livio Lo Verso, responsabile dell’Osservatorio. Che siano gli sgravi fiscali ad aver persuaso gli imprenditori o la convinzione errata che avessero già maggiore facilità di licenziamento, non è chiaro. In ogni caso non si tratta di «un aumento di posti di lavoro», mette in guardia Lo Verso. «A guardare i numeri, si capisce che il numero di lavoratori e dei datori di lavoro è non cambiato. Per essere chiari: non si tratta di occupazione aggiuntiva, ma di un “travaso” dai contratti a termine a quelli a tempo indeterminato, avvenuto sfruttando gli sgravi fiscali». E in effetti ad approfittarne «non sono state le piccole aziende che avevano (e continuano ad avere) problemi nell’assumere nuove persone, ma le aziende medio-grandi che avevano già assunto e che non aspettavano la riforma di Renzi per farlo». A Milano, poi, già adesso «il tempo medio di durata di un contratto a tempo indeterminato è più breve rispetto a un contratto a tempo determinato di tre anni. Questo perché la durata non dipende dalla tipologia contrattuale ma dall’azienda che c’è dietro».