La ricomparsa di Majorana

La ricomparsa di Majorana

L’ultimo colpo di scena nel caso della scomparsa di Ettore Majorana è l’annuncio della procura di Roma, con cui il caso arriva alla verità – mai come in questa vicenda un concetto sfuggente – sul piano giudiziario. Secondo la richiesta di archiviazione del procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani, riportata dall’ANSA il 6 febbraio 2015, il fisico italiano scomparso nel 1938 era ancora vivo tra il 1955 e il 1959, e si trovava in Venezuela.

Questa versione è stata ricostruita sulla base della testimonianza di Francesco Fasani, un meccanico con affari a Valencia, in Venezuela, che alla fine del 2008 chiamò la trasmissione “Chi l’ha visto?” su RaiTre e disse di aver conosciuto e frequentato Majorana in persona (Fasani è morto di recente, scrive l’ ANSA). Si faceva chiamare Bini, per mantenere il segreto, ma somigliava del tutto al fisico scomparso. In più mostrava di possedere una notevole conoscenza delle diverse questioni scientifiche delle quali, ogni tanto, capitava di discutere.

«Era timido – disse allora Fasani – preferiva stare in silenzio e se lo invitavi al night non veniva. Poteva avere sui 50-55 anni. Parlava romano ma si vedeva che non era romano. Si vedeva anche che era una persona colta. Sembrava un principe». A svelare a Fasani l’identità di Bini fu «il signor Carlo, un argentino» che si trovava anche lui in Venezuela.

Fasani aggiunse due elementi a sostegno della sua tesi. Il primo è una fotografia, scattata nel 1955. Tra le persone inquadrate ci sarebbe proprio Bini che, secondo un esame del RIS, il reparto di investigazioni scientifiche dei Carabinieri, mostrerebbe una perfetta corrispondenza con i tratti del volto di Ettore Majorana.

Ettore Majorana (a sinistra) e il “signor Bini” nella foto scattata in Venezuela nel 1955.

Il secondo elemento, invece, è una cartolina firmata dallo zio di Ettore, Quirino Majorana, risalente agli anni Venti, in cui discuteva di questioni scientifiche con il nipote. Fasani l’avrebbe trovata nell’auto di Bini, mentre la riparava, ed è arrivata agli inquirenti in una riproduzione consegnata dal fratello di Fasani, Claudio.

E dunque la procura di Roma ha concluso, archiviando il caso riaperto dopo la telefonata a “Chi l’ha visto”, che Majorana si sia trasferito all’estero per sua volontà e che fosse vivo, in Venezuela, negli anni Cinquanta. Che cosa facesse là non è chiaro e difficilmente lo sarà a breve, «stante l’inerzia degli organi diplomatici venezuelani richiesti di notizie», scrive la procura. Si chiude la questione? Forse.

La versione di Roncoroni

La scomparsa di Ettore Majorana è uno degli enigmi più intricati nella storia recente della scienza italiana. Ha generato le ipotesi più diverse, dibattiti e polemiche. Si lega agli anni del regime fascista e alla grande epopea della costruzione della bomba atomica; sembra uno specchio in cui si riflettono le paure del tempo e i difficili rapporti tra scienza e politica negli anni della guerra.

Stefano Roncoroni, parente (pronipote) di Ettore Majorana e autore di un recente volume dedicato proprio alla sua scomparsa ( Ettore Majorana, lo scomparso, pubblicato da Editori Riuniti nel 2013) non è convinto della verità giudiziaria a cui è arrivata la magistratura italiana.

Nel corso delle sue ricerche, condotte «all’interno della famiglia Majorana», sfruttando una «tradizione orale» inaccessibile ad altri storici, avrebbe avuto accesso a versioni del tutto diverse, ma che concordano su un punto: Ettore Majorana non sarebbe fuggito in Venezuela, ma sarebbe morto nel 1939, un anno dopo la scomparsa. E la famiglia lo sapeva.

«La testimonianza di Fasani non quadra». Roncoroni non crede che il personaggio nella fotografia sia Ettore Majorana: lui era «una persona umbratile, riservata, molto chiusa. Non avrebbe mai assunto quell’atteggiamento, anche in situazioni di buonumore – che, comunque, erano rarissime». E anche la cartolina dello zio Quirino, ritrovata nell’auto, è «una stranezza quasi sospetta. Non è possibile che fosse tra le carte “in disordine”, come dice Fasani, nella macchina di Majorana – che poi non sapeva nemmeno guidare. Ettore era una persona ordinatissima, sempre e comunque. È anche molto strano che, per fuggire in America, abbia deciso di portare con sé quella cartolina. I rapporti tra Ettore e suo zio Quirino non erano buoni. Sarebbe una scelta inspiegabile».

Piuttosto, l’ipotesi più probabile va cercata altrove, in una serie di indizi e rivelazioni, allusioni e deduzioni su cui Roncoroni costruisce la sua interpretazione della vicenda. «Dobbiamo tenere presenti due cose fondamentali: il carattere duro di Ettore, sicuro di sé non per presunzione ma perché aveva la certezza scientifica del proprio pensiero, e ciò che all’epoca lo circondava, e parlo del fascismo e dell’ambiente familiare».

Un esempio: «La morte del padre. È un passaggio rivelatore. Fabio Majorana era un ingegnere, molto meno dotato del figlio, ma aveva comunque velleità di ricercatore. Durante il periodo “tedesco” di Ettore, aveva teorizzato alcune ipotesi sulla fisica newtoniana, convinto che avrebbero cambiato il mondo. Le sottopose, per lettera, al figlio, che le smontò con ruvidezza. Poco tempo dopo, nel 1934, il padre morì. Sul letto di morte, per pietà, il fratello Quirino aveva promesso che lo avrebbe aiutato a condurre esperimenti sulle sue teorie in laboratorio. Il figlio Ettore no. Rimase fermo sulle sue parole: nemmeno come finzione, come estrema consolazione al padre morente, era disposto a fare concessioni».

Una durezza che venne fuori anche nel 1937 – l’anno prima della scomparsa – quando si trattò di accettare la cattedra, per chiara fama, all’Università di Napoli. Aveva già rifiutato offerte da Cambridge, Yale e dalla Carnegie Foundation, dice Roncoroni. «Voleva rifiutare anche quella di Napoli. Scrisse più volte che non aveva intenzione di andare là».

Allora fu la famiglia (oltre alle pressioni di colleghi, come Fermi e Gentile – figlio del ministro – che telefonavano di continuo per conoscere le sue intenzioni) «quasi a costringerlo ad accettare. Bisogna capire il contesto. La famiglia Majorana contava membri illustri, statisti, ministri, deputati, senatori. Presidi di facoltà, professori. Persone importanti. Ettore non poteva sottrarsi ancora, anche perché, in quei tempi, non si doveva nemmeno scherzare con la dittatura. Lo zio Quirino, che aveva una cattedra importante a Bologna [in fisica sperimentale, ndR], si mise in mezzo. Ed Ettore accettò. In uno stesso giorno scrisse due lettere. Nella prima diceva “Sono contento di andare a Napoli”, indirizzata alla madre. Nella seconda, invece, a un amico, scriveva: “Non so se andrò a Napoli”. Era in dubbio fino alla fine».

Ma questo, finora, dimostra solo come la faccenda fosse intricata. Cosa accadrà dopo, a Napoli, non è chiaro. «Rimase tre mesi a insegnare. Era molto ligio, molto attento. Si accorse subito di avere di fronte una classe di teste di legno, cui doveva spiegare e ri-spiegare tutto. Ma era molto paziente e, se non capivano, ricominciava dall’inizio». Ma poi? «Secondo me accadde qualcosa. Forse erano problemi esistenziali, profondi. In quel momento la sua testa (è una mia ipotesi) comincia ad avere qualche problema». Questo è il punto in cui le piste per capire la sorte di Majorana entrano nel mondo dell’ipotesi e spesso della fantasia.

Majorana scompare il 27 marzo 1938. Doveva imbarcarsi per Napoli, dopo un breve soggiorno a Palermo per riposare. La sera precedente scrisse una serie di lettere in cui viene, con chiarezza, annunciato il suicidio. All’amico Carrelli parla di “decisione inevitabile”, e di un distacco imminente e definitivo. Alla famiglia, addirittura, chiede di “che non si vestano di nero” e di “ricordarlo nei loro cuori, e di perdonarlo”. Ma pochi ne sono convinti. I più credono che si tratti di una macchinazione, un trucco per sparire (Majorana inviò poi da Palermo un telegramma a Carrelli dicendo di non preoccuparsi per la sua lettera precedente – che l’amico doveva ancora ricevere).

«Io credo che non sia andata così. Secondo le mie ricostruzioni Ettore Majorana era stato ritrovato dai familiari. E poi è fuggito ancora. Sarebbe morto nel 1939». A sostegno di questa ipotesi ci sono alcuni indizi. «Tutte cose derivate da deduzioni e da alcune conversazioni che ho avuto con membri della mia famiglia», aggiunge. Sono queste.

Nell’ordine, c’è «la testimonianza di alcuni pastori di Perdifumo, che sostenevano di averlo visto aggirarsi nella zona. La famiglia, che lo cerca in Campania, si stabilisce per un mese proprio a Perdifumo. Perché così a lungo, e perché in un posto così isolato, per giunta? Era molto più comodo stabilirsi sulla costiera. Per questo io deduco che sia stato trovato. E che abbia avuto un dialogo con i familiari nel quale chiedeva di essere lasciato solo». Se non bastasse: «In una pagina del suo diario, subito dopo la scomparsa, il nonno (cioè il padre di Ettore) scriverà: “Meglio avere un figlio ciuccio che un genio pazzo”. Qualcosa deve essere accaduto, qualcosa deve avere saputo». E poi, «c’è una testimonianza di Mario Savini Nicci, figlio di Oliviero, che era imparentato con Angelo Majorana (fratello di Fabio) per parte di moglie. Mi raccontò che parlò con il padre e gli chiese di Ettore. Lui rispose che “la sorte di Ettore non deve interessarti. È finito in modo non consono”. Che intendeva? Che sapeva? Tutto sembrava indicare che ci fosse un segreto sotto, stranissimo, che non volevano che si sapesse. Ma quale?».

La famiglia ha avuto un atteggiamento molto fermo sull’argomento, e poco comunicativo. Il motivo forse era che «il comportamento di Ettore si dimostrò molto poco fascista. Era del tutto anti-italiano, non nerboruto, non deciso. Tutto l’opposto dello zio Quirino che invece veniva spesso portato a esempio perché, dicevano, “quando si mette in testa qualcosa, non gliela toglie nessuno”». La scomparsa di Majorana era una macchia anche per il regime: «Quando Quirino fu insignito del premio “Mussolini – Corriere della Sera”, una sorta di Nobel italiano, nelle pagine di giornale che raccontavano l’evento non si faceva nessuna menzione di Ettore, del quale non si voleva parlare. Venne “seppellito” dalla fama dello zio». Non se ne voleva parlare.

In tutto questo, c’è la questione della morte, vera o presunta. Secondo Roncoroni avvenne nel 1939. «Altro che anni Cinquanta in Venezuela. Io sono convinto che dopo l’incontro con la famiglia, Ettore riesce a fuggire ancora. Si nasconde nella boscaglia. Le ricerche riprendono, con in più la presenza – certificata – di unità cinofile inviate da Roma proprio per lui. Ma non lo si trova». E la morte «arriva poco dopo. Lo si capisce da alcune cose. L’Università di Napoli, che fino a quel momento aveva mantenuto la sua cattedra vacante, nel 1939 decide di radiarlo dall’incarico. Non lo avrebbero fatto – ricordiamoci che si trattava del più grande fisico dell’epoca – se avessero avuto qualche dubbio sulla sua sorte. Io credo che avessero saputo che fosse morto. Poi, anche Gentile junior, figlio di Giovanni, nella sua voce Ettore Majorana per l’Enciclopedia Treccani, scrisse “fu”. Gli uscì dalla penna, era una svista non casuale. La voce poi non fu pubblicata a causa della guerra, ma si trova ancora negli archivi».

C’è anche il fatto che la polizia «a metà del 1939 smette di cercarlo. Prima ancora avevano smesso di cercarlo sulle frontiere, perché avevano saputo che era in Italia, deduco». E infine, la lettera del padre gesuita Ettore Caselli, del 22 settembre 1939, inviata al fratello Salvatore, che conferma la creazione di una borsa di studio per la formazione e l’istruzione di un gesuita, a nome del “defunto ed estinto Ettore Majorana”. Più di così».

Ma le ricostruzioni sono sempre indiziarie, si affonda in un passato pieno di contraddizioni, silenzi, segreti. In mezzo c’è l’onore di una grande famiglia siciliana che contava ministri e parlamentari, pezzi di Stato (come lo zio Angelo, ministro delle Finanze e del Tesoro ai primi del Novecento). Le dinamiche complesse delle Università, la propaganda e il regime, l’ideologia antica della famiglia e quella nuova del fascismo. Poi c’è il genio, imprevedibile e doloroso, di Ettore Majorana, su cui sono pesati sospetti e illazioni (l’omosessualità, il filonazismo), o le ipotesi più nobili, del ritiro in convento per sottrarsi al destino della bomba. E appunto, la bomba: intorno ci saranno gli episodi di fuga dei colleghi, come Fermi, che passa al nemico americano, la guerra in arrivo e il mondo nuovo. Un momento di subbuglio e confusione, insomma, su cui è difficile fare chiarezza.

«Uno spirito insoddisfatto e tormentato»

Ettore Majorana era nato a Catania il 5 agosto 1906. Suo padre Fabio Massimo, ingegnere, era stato direttore della Società dei telefoni catanese, la madre Dorina Corso era figlia di ricchi agricoltori della provincia. Nel 1921 la famiglia si trasferì a Roma e dopo qualche anno Fabio ebbe l’incarico di ispettore generale al ministero delle Comunicazioni.

Ettore era il quarto di cinque fratelli e aveva studiato nell’antico Istituto Massimiliano Massimo, una scuola dei gesuiti in cui negli anni sono passati lo scrittore Ignazio Silone, l’attuale direttore della BCE Mario Draghi e l’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli.

L’interesse di Majorana per la fisica teorica non fu immediato. Nel 1923, dopo il trasferimento per l’ultimo anno al liceo classico “Torquato Tasso” e la maturità, Ettore si iscrisse al corso di ingegneria dell’università di Roma. Tra i suoi compagni di studi a ingegneria c’era anche Emilio Segré, che nel 1927 decise di passare a fisica.

Professore straordinario di fisica teorica a Roma, da appena un anno, era uno degli scienziati italiani più promettenti del tempo: Enrico Fermi, allora ventiseienne. Intorno a lui si creò in quegli anni il famoso gruppo dei “ragazzi di via Panisperna”, dalla via in cui aveva sede l’istituto di Fisica.

Erano anni esaltanti per la fisica e in particolare per le ricerche sull’atomo, che in meno di cinquant’anni, dalla scoperta della radioattività nel 1896 alla prima esplosione di una bomba nuclare, nell’estate del 1945, sarebbero passate da un campo del sapere nuovo e marginale a cambiare in modo decisivo la comprensione umana dell’universo e le sorti del Novecento.

Nei primi tempi del gruppo di via Panisperna – che oltre a Fermi accolse, tra gli altri, Bruno Pontecorvo e Edoardo Amaldi – Segré parlava spesso delle eccezionali qualità scientifiche di Ettore Majorana. Ai primi del 1928, questi si convinse ad andare a fare una visita all’istituto di fisica. Così ricorda Amaldi la prima volta che lo vide, alla prima comparsa nello studio di Fermi accompagnato da Segré: «Di lontano appariva smilzo, con un’andatura timida e quasi incerta; da vicino si notavano i capelli nerissimi, la carnagione scura, gli occhi vivacissimi e scintillanti: nell’insieme l’aspetto di un saraceno». Ascoltò Fermi che gli presentava le ricerche dell’istituto; di lì a poco si convinse a passare a fisica.

Enrico Fermi, 10 agosto 1945

Amaldi scrive che Majorana dimostrava qualità eccezionali quanto a capacità di calcolo e a spirito critico, tanto da sembrare «molto superiore a tutti i suoi nuovi compagni». Se Fermi si era guadagnato il nome scherzoso di “Papa”, Majorana era il “Grande Inquisitore”. Negli incontri fuori dall’istituto, a cui partecipavano gli studenti di fisica e di ingegneria, si parlava delle ultime scoperte nel campo della fisica atomica, ma anche di letteratura e di politica. Majorana «prediligeva Shakespeare e Pirandello», scrive Amaldi, che si laureò lo stesso giorno di Majorana, il 6 luglio del 1929. Ettore presentava una tesi con Fermi come relatore ed ebbe il massimo dei voti.

Dopo la laurea, Majorana continuò ad andare in via Panisperna. Aveva pochi amici e un carattere molto riservato, apparendo durissimo verso sé stesso e persino verso i lavori dei più grandi fisici del tempo. Secondo Amaldi, «tanta severità non era altro che la manifestazione di uno spirito insoddisfatto e tormentato. Sotto un apparente isolamento dal prossimo, non solo di fatto ma anche di sentimenti, si nascondeva una sensibilità vivissima». Alla fine del 1932, quando aveva pubblicato solo cinque articoli scientifici – in totale ne firmò nove – diventò libero docente di fisica teorica, con un lusinghiero giudizio della commissione giudicante, di cui faceva parte anche Fermi.

Scoperte e intuizioni

Nello stesso 1932, a febbraio, James Chadwick annunciò la scoperta del neutrone, l’ultimo dei tre componenti fondamentali dell’atomo (dopo il protone e l’elettrone) ad essere dimostrato sperimentalmente. La comunità dei fisici aveva un altro tassello fondamentale per elaborare una teoria che spiegasse la struttura dell’atomo e le forze che lo costituivano.

In questa vicenda compare uno degli elementi più affascinanti, e più discussi, dell’enigma di Majorana: la sua capacità di prevedere le scoperte più importanti, da un lato, e dall’altro la sua ritrosia a renderli pubblici. Chi arrivò per primo a pubblicare una teoria del nucleo, di cosa lo componesse e di cosa lo tenesse unito, fu il grande fisico tedesco Werner Heisenberg, nel luglio del 1932.

Ma Amaldi testimonia che alcune delle intuizioni fondamentali erano già state comunicate da Majorana a Fermi e agli altri prima della Pasqua di quell’anno. Majorana, nonostante gli incoraggiamenti, non volle pubblicare nulla sull’argomento, pensando che il suo lavoro fosse «incompleto», e proibì a Fermi di accennare a quelle idee a una conferenza sull’atomo pochi giorni prima della comparsa dei risultati di Heisenberg.

Proprio da Heisenberg, a Lipsia, il ventisettenne Majorana andò con una borsa di studio per sei mesi nel 1933. Fermi era riuscito a convincerlo a quel soggiorno, che lo portò anche a Copenhagen (dove si trovava Niels Bohr, un altro dei giganti della fisica del tempo). Durante il periodo in Germania, Majorana maturò grandissimo rispetto e ammirazione per Heisenberg e un giudizio assai positivo sulle capacità organizzative del regime nazista.

Al suo ritorno, però, cominciò ad estraniarsi dal gruppo di via Panisperna, frequentandolo sempre più saltuariamente e passando poi allo studio solitario nella sua casa romana. Sembrò anche mettere da parte la fisica, per occuparsi di ingegneria navale, economia politica e delle opere di Schopenhauer. I suoi vecchi compagni di studi provarono a tirarlo fuori di casa, ma senza successo.

Majorana si stava trascurando, ricorda Amaldi: «in quel periodo qualcuno degli amici che era andato a trovarlo gli mandò a casa, nonostante le sue proteste, un barbiere». E non è chiaro se stesse ancora portando avanti i suoi interessi passati: «Nessuno di noi riuscì però mai a sapere se facesse ancora della ricerca in fisica teorica; penso di si, ma non ne ho alcuna prova».

Se tornò a pubblicare un articolo sui temi della fisica nucleare, nel 1937, fu per insistenza dei suoi amici, che volevano che concorresse al nuovo concorso pubblico per le cattedre di fisica teorica. Majorana venne nominato professore di fisica teorica «per meriti speciali» all’università di Napoli, come abbiamo già ricordato, prima ancora della conclusione del concorso, in novembre. Ai primi di gennaio del 1938 si trasferì nella città, mantenendo il suo stile di vita estremamente ritirato e afflitto forse da problemi fisici.

Premonizioni?

Quando Ettore Majorana scomparve, due mesi più tardi, non fu solo la famiglia a muoversi, con annunci sui giornali e appelli alle autorità. Il senatore Giovanni Gentile – suo figlio, Giovanni junior, era stato compagno di studi di Ettore – scrisse al capo della polizia Arturo Bocchini, intercedendo per Salvatore Majorana, zio dello scomparso, che chiedeva un supplemento delle prime, frettolose indagini.

Qui la storia di Ettore Majorana si intreccia con quella del regime fascista. Anche Enrico Fermi scrisse a Mussolini alla fine del luglio 1938, pochi giorni dopo la promulgazione delle leggi razziali, invitando a non arrestare le ricerche (la sua lettera ne accompagnava un’altra diretta a Mussolini, firmata dalla madre di Ettore). Di lì a poco avrebbe abbandonato l’Italia, uno schiaffo al regime che perdeva uno dei suoi scienziati migliori. Il 10 dicembre Fermi, che aveva sposato una donna ebrea, Laura Capon, ricevette il premio Nobel per la fisica a soli 37 anni, non fece il saluto romano al re di Svezia – ricevendo unanime condanna dai giornali in patria – e mise in pratica il suo proposito di abbandonare il suo paese insieme alla famiglia, stabilendosi negli Stati Uniti.

«Fra tutti gli studiosi italiani e stranieri che ho avuto occasione di avvicinare il Majorana è quello che per profondità di ingegno mi ha maggiormente colpito», scrisse Fermi a Mussolini. Dopo il suo trasferimento oltreoceano, Fermi costruì il primo reattore nucleare a Chicago e fu leader scientifici del Progetto Manhattan che portò alla prima bomba atomica. Era possibile che la «profondità di ingegno» di Majorana gliela avesse in qualche modo fatta prefigurare, nelle settimane e mesi che precedettero la sua scomparsa?

È la tesi del famoso libro dedicato a Majorana da Leonardo Sciascia, probabilmente la versione dell’enigma che ha avuto la maggior fortuna in Italia. Apparso a puntate dalla Stampa tra il 31 agosto e il 7 settembre 1975, La scomparsa di Majorana fu poi pubblicata da Einaudi un mese più tardi. Majorana vi appare afflitto dalle sorti del mondo – e del ruolo della scienza in quella afflizione. Questa consapevolezza lo avrebbe spinto a ritirarsi in un convento, e lo stesso Sciascia andò in cerca delle sue tracce alla certosa di Serra San Bruno, in provincia di Catanzaro. Ma come ammise qualche tempo dopo, «Majorana aveva organizzato così bene la propria scomparsa, che non ha lasciato tracce di sorta».

All’inizio degli anni Settanta “l’enigma Majorana” era ancora un tema discusso e il libro di Sciascia non fu un fulmine a ciel sereno. Nel 1972 uscì lo sceneggiato televisivo di Leandro Castellani Ipotesi sulla scomparsa di un fisico atomico, che – con parecchie libertà – presentava la vicenda con una conclusione simile a quella di Sciascia: Ettore Majorana si sarebbe suicidato perché avrebbe previsto una futura catastrofe.

Non molto diversa fu la ricostruzione di Sciascia, basata su circa quattro anni di ricerche e su una immedesimazione nel personaggio che lo portò a dire, come nella famosa frase di Flaubert, «Majorana c’est moi». Lo scrittore tenne fermo il punto anche in interviste successive: Majorana era voluto scomparire, Majorana aveva intuito qualcosa. Il libro suscitò una lunga polemica, protrattasi dall’ottobre al dicembre del 1975 sulla stampa italiana, tra lo scrittore e il fisico Edoardo Amaldi, che era stato tra i pochi a rimanere vicino a Majorana anche durante gli anni della sua volontaria semireclusione, tra il 1933 e il 1937.

Amaldi sottolineò una serie di errori nella ricostruzione di Sciascia ed espresse l’opinione che sarebbe stato impossibile per Majorana prefigurare l’atomica, nonostante le sue eccezionali qualità. In effetti, la scoperta decisiva che rese improvvisamente chiaro ai fisici la possibilità di costruire la bomba avvenne solo dopo la scomparsa di Majorana.

All’inizio del 1938, la struttura interna dell’atomo era ancora oggetto di dibattito, ma l’opinione prevalente era che nessuna energia o processo fisico disponibile sulla Terra potesse “romperlo”. Fu solo un esperimento portato avanti da Otto Hahn tra il 16 e il 17 dicembre di quell’anno – che gli valse il premio Nobel – a mettere la comunità dei fisici davanti a un dato inedito: se bombardato da un flusso di neutroni, un atomo di uranio poteva essere scisso in due atomi grandi pressapoco la metà, liberando anche una grande quantità di energia.

A quel punto fu chiaro a tutti, nell’ambiente ristretto della fisica nucleare, che almeno a livello teorico era possibile liberare enormi energie dall’atomo; ma ci vollero ancora molti anni prima che questa energia venisse imbrigliata nella prima pila atomica – quella di Fermi – e poi venisse liberata in modo incontrollato nell’esplosione della prima bomba. Non solo: per farlo, gli Stati Uniti dovettero mettere al servizio degli scienziati del progetto Manhattan un apparato industriale fatto di laboratori, impianti industriali e risorse economiche che rivaleggiava con l’industria automobilistica del tempo per dimensioni – e, per i costi, con le più costose imprese scientifiche della storia, ai livelli del successivo programma di esplorazione spaziale Apollo.

Amaldi scrisse a Sciascia che non c’era mai stata alcuna rivalità tra Fermi e Majorana negli anni di via Panisperna, come sembra suggerire lo scrittore tra le righe, e che il fisico scomparso aveva sì qualità eccezionali, ma non era il gigante che descriveva Sciascia. E se gli scienziati tedeschi non avevano costruito la bomba non era stato per scrupoli morali – come lo scrittore sembrava attribuire ad Heisenberg – ma per una «inadeguatezza tecnica e organizzativa» (L’Espresso, 5 ottobre 1975).

Sciascia rispose subito allo scienziato. Non fu la consapevolezza della bomba a far desiderare a Majorana di sparire, scrisse. «Quel che mi pare certo è che Majorana ha avuto a un certo punto paura della scienza e di sé stesso in quanto scienziato» (Paese Sera, 3 ottobre 1975). Poco più avanti, quando i toni della discussione a distanza si erano fatti più accesi, Sciascia sembrò ammettere di non aver cercato la verità dei particolari: «[Majorana] è un personaggio che ho amato, che amo. E ho tentato di farne un simbolo […]. Dico che appunto questo dà fastidio: il simbolo che Majorana può diventare» ( L’Espresso, 19 ottobre 1975).

Il simbolo di una ribellione dell’uomo alla scienza, della coscienza morale alla tirannide, della persona tormentata allo “spirito del tempo”. Negli anni della Guerra fredda e della corsa agli armamenti, quando ormai il numero delle testate in mano alle potenze contrapposte avevano superato le decine di migliaia, una simile ribellione sembrava il gesto più nobile per uno scienziato, almeno da parte di Sciascia, che aveva un sincero orrore per i pericoli che avevano portato nel mondo le scoperte nucleari.

Pericoli di cui, nella visione di Sciascia, erano responsabili gli uomini di scienza. Il biografo di Sciascia Matteo Collura riporta che lo scrittore volle fare con La scomparsa di Majorana un libro «contro Fermi e gli scienziati come lui» (Il maestro di Regalpetra, p. 242).

Molte altre ricostruzioni sono state avanzate nella storia dell’enigma Majorana. Dalle più complesse – ucciso con il benestare dei servizi segreti americani perché non collaborasse con i regimi fascista e nazista – a diverse variazioni dell’ipotesi del volontario ritiro dal mondo, vagabondo in Calabria o in Sicilia. Una perizia calligrafica commissionata da Paolo Borsellino, allora procuratore a Marsala, smentì negli anni Ottanta la sua identificazione con un certo Tommaso Lipari, senzatetto a Mazara del Vallo. C’è anche la pista argentina, ricostruita in questi giorni dal professor Federico Di Trocchio della Sapienza di Roma, e anche qui compare una fotografia: che ritrarrebbe Majorana a bordo di una nave, nel 1950, vicino al criminale nazista Adolf Eichmann. Anche in quel caso un’analisi al computer ha mostrato «un’evidente corrispondenza», ha detto Di Trocchio.

After such knowledge, what forgiveness? scrisse T.S. Eliot. “Dopo tale conoscenza, quale perdono?” La lettura di Sciascia, più di ogni altra, è figlia della paura del disastro nucleare, della riflessione sulle responsabilità della scienza, del dibattito di allora sul presunto scontro tra scienza e umanesimo, “le due culture”, come nel titolo di un fortunato libro di Charles Snow apparso nel 1964.

Con il passare degli anni e il cambiamento del mondo, anche la ricostruzione della vicenda sembra scivolare in altre discussioni e in altri contesti. La procura di Roma non si è espressa sui motivi della scomparsa di Majorana, e non è un caso che la tematica nucleare sia rimasta sullo sfondo. Un uomo vicino alla famiglia Majorana come Stefano Roncoroni presenta il caso di Ettore come quello di un dramma psicologico e di un segreto tenuto nascosto dai parenti. La verità, nel caso Majorana, sembra più che mai sfuggente e figlia del tempo.

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