“La scuola italiana non insegna il pensiero critico”

“La scuola italiana non insegna il pensiero critico”

Caro Direttore,

sono una ragazza italiana laureata in Psicologia in Inghilterra. Come desumibile da questa prima frase, anch’io faccio parte dei tanti giovani italiani che hanno scelto di studiare e potenzialmente lavorare all’estero. Questa però non sarà un’ennesima lettera di lacrime e disperazione sull’incapacità di un paese a trattenere le sue giovani teste. Bensì lo scopo di questo scritto è una riflessione che vorrei fare sui diversi sistemi universitari italiano e inglese e sulla possibilità di migliorarsi grazie a un confronto critico e costruttivo. Nonostante io ponga l’attenzione sul sistema universitario, ritengo che le argomentazioni che espongo possano essere applicate anche (e soprattutto) a tutti i livelli educativi statali (dalla scuola primaria a quella secondaria di primo e secondo grado).

Per una qualsiasi trattazione intelligente del tema dell’educazione occorre innanzitutto stabilire lo scopo che essa si prefigge. Conseguentemente a ciò, si può decretare quale siano i mezzi più efficienti e utili per raggiungere l’obbiettivo prefissato. Il tema è sicuramente vasto e complesso e difficilmente potrebbe essere trattato in una lettera. Per questo motivo vorrei concentrarmi su un punto che io ritengo fondamentale e necessario a qualsiasi apparato scolastico: l’educazione allo sviluppo di un pensiero critico (da krino, in greco, che significa “giudicare”, quindi un pensiero “giudicante”) e autonomo. Come le ricerche scientifiche ci insegnano l’homo sapiens si distingue dagli altri animali per lo sviluppo di una parte frontale del cervello (lobo frontale) adibita ai processi cognitivi, al pensiero e alla manipolazione di simboli e significati. I frutti delle abilità non solo creative ma anche di analisi e sintesi dell’essere umano hanno dato luogo a tutti quegli eventi e prodotti intellettuali che vengono tematicamente raggruppati e affrontati in discipline come storia, filosofia, letteratura, le scienze ecc. Ritengo che proprio questa capacità di riflettere su un concetto o analizzare un problema e trovare soluzioni associando idee in modo innovativo, sia un potente strumento intellettuale da stimolare e coltivare. Se utilizzato al pieno delle proprie potenzialità, questa naturale capacità intellettuale può, a mio avviso, non solo beneficiare il singolo essere umano/cittadino, ma anche la società stessa, intesa come organizzazione efficiente di una moltitudine di persone.

La mia riflessione vuole quindi analizzare come nei sistemi educativi universitari di Italia e Inghilterra questo “motore cerebrale” venga valorizzato e promosso. Partendo dall’Università Italiana, e più in generale dal suo sistema scolastico, ritengo che questa abilità intellettiva, a livello per lo meno formale (cioè secondo ciò che è previsto dai sistemi di valutazione universitari) venga molto poco coltivata e considerata. Sembra che la Scuola Italiana, forse per timidezza o per modestia, neghi in modo più assoluto la possibilità per l’homo alumnus di formulare qualsiasi tipo di pensiero autonomo. Lo studente viene quindi valutato e apprezzato solo in proporzione alla quantità di informazioni che riesce a registrare nelle pieghe dei suoi neuroni ippocampali. L’homo alumnus diventa quindi l’homo pappagallus e la principale (e spesso sola) cosa che gli/le viene richiesto è di ripetere una serie di informazioni più o meno approfondite rispetto a un dato argomento.

In terre britanniche una critica all’infertilità e inutilità di questa “scuola di memoria” era già stata mossa da Charles Dickens (1812 – 1870) nella novella Hard Times. Questo pilastro della letteratura Vittoriana, descrive come un’educazione del «Now, what I want is facto» commetta l’errore di pensare l’alunno come un vessel, un vaso, che debba essere riempito di informazioni, da rigurgitare al momento della verifica. Come, però, ci ricordano Mauro Magatti e Chiara Giaccardi, autori del libro Generativi di tutto il mondo unitevi!, il verbo “educare” nella sua origine latina educere non significa appunto “mettere dentro” ma piuttosto “tirare fuori”. In Inghilterra, gli studi e le riflessioni sullo scopo e le tecniche dell’istruzione hanno portato allo sviluppo di un metodo educativo che solo in poca parte dà importanza alle abilità mnemoniche dello studente. Più precisamente, nel caso specifico dell’educazione universitaria inglese, si è data maggior importanza allo sviluppo della capacità non solo di analizzare criticamente la materia ma anche di saperla strutturare secondo un pensiero coerente, logico e se possibile originale. Per esempio, gran parte del voto finale di laurea è determinato da una serie di saggi critici (essays) che vengono scritti durante l’anno su diverse tematiche trattate dal programma. Questo sia per quanto riguarda le materie umanistiche che quelle scientifiche. Per esempio, nel caso specifico della facoltà di psicologia, lo studente viene valutato non solo su essays (cioè appunti saggi critici su un dato argomento) ma anche su dei lab reports che sono delle simulazioni di articoli scientifici. Qui lo studente solitamente descrive l’esperimento che ha condotto, lo analizza in tutte le sue parti e in ultimo considera i risultati dello studio, valutando potenziali confounding variables che possono aver influito nella raccolta e interpretazione dei dati. Infine suggerisce idee su futuri esperimenti che possano chiarificare eventuali ambiguità nei risultati. Questo educa lo studente a condurre esperimenti scientifici di alta qualità, a saper esporre le proprie ricerche in modo chiaro, e, in ultimo, a sviluppare le proprie capacità creative e di analisi.

In prima persona ho sperimentato quanto un’educazione al ragionamento critico non solo dia la possibilità di capire — e quindi ricordare, come piace tanto a noi Italiani — un argomento o concetto in modo approfondito ma, molto più importante, fornisca gli strumenti per analizzare e criticare un qualsiasi insieme di informazioni, sia esso relativo a tematiche di nostra competenza o meno. Una formazione di questo tipo è quindi in grado di formare cittadini pensanti equipaggiati con abilità intellettuali (secondo le possibilità di ciascuno) che possono essere applicate in ogni campo lavorativo e di vita. Per questo, sia che si guardi allo studio universitario da un punto di vista utilitaristico (pensandolo cioè come strumento formativo al mondo del lavoro), sia che lo si pensi come un approfondimento personale di un interesse intellettuale, un’educazione alla manipolazione critica della materia risulta essere molto più utile e sensata di un sistema che promuove una sterile memorizzazione di fatti (spesso dimenticati in poco tempo). In ultimo, e lo dico per esperienza personale, avere la possibilità di condurre un’analisi critica su un dato argomento di interesse e di proporre idee innovative riguardo ad esso, è una delle esperienze più interessanti, appaganti e coinvolgenti della propria carriera accademica e vita intellettuale. Privare dei giovani studenti di questa ‘bellezza’ e di questa valida misura delle proprie capacità intellettive ritengo che sia un triste ed inutile errore che il sistema educativo italiano ha commesso ormai da troppo tempo.

Questa mia lettera, quindi, è un invito a riformulare il sistema educativo (universitario e non) secondo criteri più intelligenti e utili. Credo infatti, e lo dico soprattutto per esperienza, che sia molto più utile al cittadino e all’essere umano imparare a usare il proprio cervello al massimo della propria potenzialità, in modo cioè critico e creativo, piuttosto che usare questa massa di neuroni raggruppati poco sopra il collo come un magazzino un po’ lacunoso di informazioni e fatti. Un errore di questo genere penso significhi non solo non aver veramente mai ponderato su quale sia l’obbiettivo dell’educazione (statale) e quale il suo significato intrinseco ma anche non capire le grandi potenzialità che un cervello pensante e creativo può avere. Se l’Italia deve ripartire dai giovani e dalle nuove idee con cui questi possono migliorare il Bel Paese (tenendo presente che le capacità cognitive umane cominciano a declinare già dai 20 anni circa), ritengo che assoluta importanza debba essere riposta nel sistema educativo statale e nei metodi con cui forma l’individuo-cittadino.

Grazie, Chiara.

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