Le manovre di Draghi che affossano la Grecia

Le manovre di Draghi che affossano la Grecia

La decisione del Presidente della Bce Mario Draghi del 4 febbraio scorso di non accettare più titoli di Stato greci a partire da mercoledì 11 febbraio è un po’ come piazzare una bomba ad orologeria nel sistema finanziario greco e attivare il timer. C’è ancora tempo per bloccare il conto alla rovescia, ma gli eventi potrebbero subire un’accelerazione e rendere inevitabile l’esplosione.

Più precisamente, parliamo della più che possibile “corsa agli sportelli” delle banche greche. Domanda: foste dei risparmiatori che vivono in Grecia o imprese che vi operano greci, terreste la vostra liquidità depositata presso una banca greca? Le banche centrali sono state inventate un centinaio di anni fa affinché impedissero l’innesco di reazioni a catena nel sistema bancario, grazie alla loro funzione di prestatore di ultima istanza. Dopo una decisione come quella di Draghi, un risparmiatore – se razionale, s’intende – dovrebbe immediatamente recarsi allo sportello più vicino e ritirare tutto il contante possibile, a meno che non abbia un conto all’estero su cui bonificare.

Per evitare il panico e la successiva fisiologica chiusura delle banche greche, Draghi ha in realtà lasciato aperta una via attraverso cui gli euro possono ancora fluire in Grecia. Si chiama Ela – acronimo di Emergency liquidity assistance – ed è una linea di credito speciale a favore della Banca centrale greca. Con l’Ela, tuttavia, le condizioni vengono ridefinite ogni 15 giorni e i finanziamenti possono essere sospesi in qualsiasi momento a discrezione della Bce.  In estrema sintesi: oltre ad aver piazzato una bomba a orologeria, Draghi sta pure puntando una pistola alla tempia della Grecia. La questione è piuttosto semplice: o il neo-Premier Alexis Tsipras e il suo ministro delle finanze Yanis Varoufakis si arrendono ai diktat di quella Troika di cui la stessa Bce fa parte, e rinuncia all’idea di rinegoziare il debito e di ridiscutere i patti a suo tempo stipulati. Oppure, non ha altra strada dall’uscita dall’Euro e dal default.

Che la situazione sia seria è evidente. Che lo sia molto, è testimoniato dalla preoccupazione degli Stati Uniti, che in maniera piuttosto inusuale stanno sollecitando le istituzioni europee a tener conto di quanto emerso dalle elezioni greche e ad abbandonare l’atteggiamento rigido adottato sinora. Del resto, se c’è un certezza, in tutta questa storia, è che la Grecia non è in grado di ripagare il proprio debito. Una possibilità è quella di allungarne le scadenze o di sostituirne una parte con titoli legati alla crescita economica, così come propongono gli stessi Tsipras e Varoufakis. Un’altra è quella di abbuonarne una parte e ripartire con un livello di debito sufficientemente basso da consentire alla Grecia di tornare a rifinanziarsi sul mercato e riacquisire un grado di sovranità fiscale pari a quello degli altri paesi europei. Una proposta, quest’ultima che proviene sia da economisti tradizionalmente liberal come Joseph Stiglitz, così come da repubblicani come Kenneth Rogoff

Se tutto questo è tecnicamente possibile, perché Draghi si ostina a voler perseguire la linea dura? C’è chi dice sia una questione meramente tecnica e non politica. Stando alle regole, infatti, la Bce potrebbe accettare come garanzia titoli di Stato di paesi appartenenti all’area euro solo se sono Investment Grade, cioè con rating pari a BBB o superiore. Nel caso i titoli non siano Investment Grade – e quelli greci non lo sono – la Bce potrebbe accettarli solo se il paese emittente stesse seguendo un programma di assistenza finanziaria e di consolidamento fiscale concordato con l’Europa. Quindi, la decisione di Draghi sarebbe “tecnicamente” ineccepibile, se e solo se la Grecia non fosse più soggetta ad alcun programma di assistenza.

Tuttavia, così non è. il governo greco, infatti, ha dichiarato di voler negoziare un nuovo accordo con i partner europei ma non ha ancora formalmente ripudiato gli accordi attuali. Se contassero le dichiarazioni dei politici, probabilmente la Bce non dovrebbe più prestare euro a mezza Europa. A titolo di esempio, giova ricordare come nel programma di Renzi delle Primarie 2013  vi fosse la proposta di superare il limite del 3% nel rapporto deficit/Pil. Una dichiarazione d‘intenti, questa, ripetuta più volte nei primi mesi al Governo, salvo infrangersi contro il  muro eretto a Bruxelles. Condizione – è vero – non sufficiente a interrompere il flusso di denaro verso l’Italia. Tuttavia, non si ricordano parole o atti di Draghi consequenziali a tali aspettative.

Peraltro, il fatto che Tsipras non abbia intenzione di rompere con l’Europa è testimoniato anche dal fatto che la sera di domenica 8 febbraio ha presentato al Parlamento greco la proposta che esporrà all’Eurogruppo il prossimo 11 febbraio. Si tratta di una moratoria di quattro mesi durante la quale nessuna delle promesse elettorali di Syriza verrà implementata. Durante la moratoria, dovrebbero proseguire le trattative tra Grecia e partner europei per arrivare ad una ridefinizione degli accordi e del programma di assistenza.

Se l’Europa dovesse accettare la proposta di moratoria, cosa farà Draghi? A rigor di logica, dovrebbe riammettere i titoli di Stato greci come garanzia, perché il programma non è stato ripudiato. Tuttavia, è molto più probabile che non lo faccia, per ragioni sia tecniche che politiche. Se lo facesse, infatti, dovrebbe ampliare il Quantitative Easing ai titoli di Stato ellenici, perché le regole per l’ammissione al programma di acquisto sono le medesime regole che normano l’ammissione alle normali operazioni di rifinanziamento. Ne conseguirebbe che un pezzettino dei 1.200 miliardi di euro che la Bce investirà a partire da marzo dovrebbe essere investito dalle parti di Atene. Qui subentra il problema politico:se estendesse il Quantitative Easing alla Grecia, Draghi avrebbe problemi serissimi con i falchi del rigore tedeschi e del  Nord Europa. Così facendo, tuttavia, sacrificherebbe la Grecia, la sua presenza in Europa, forse la sua stessa sopravvivenza. Ne vale la pena?

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