Il premier in carica Benjamin Netanyahu esce come vincitore indiscusso di queste elezioni israeliane anticipate e già annuncia l’intenzione di creare un governo “forte” entro le prossime due o tre settimane. Il suo partito – il Likud – ha, a spoglio praticamente concluso, 30 seggi su 120 alla Knesset, il Parlamento israeliano. Nel 2013 si era fermato a 18. Gli avversari di centro-sinistra del Zionist Camp, guidato dal laburista Isaac Herzog – dati in leggero vantaggio dai sondaggi della vigilia – conquistano 24 seggi. Terza forza del Paese il cartello dei partiti arabi, che ottiene 14 eletti.
Secondo il parere unanime degli analisti è una vittoria netta del Likud, che già alla vigilia veniva comunque dato come favorito dal gioco delle alleanze ma che è riuscito a rubare voti ai potenziali partner di governo e risultare così il partito più votato.
Gli 11 seggi in più ottenuti dal partito del premier rispetto al 2013 sono probabilmente legati al calo del partito ultra-ortodosso Shas (avrà 7 eletti, 4 in meno del 2013) e del partito nazionalista del “falco” Lieberman, “Yisrael Beiteinu” (che passa da 13 a 6 seggi). Netanyahu potrà comunque contare anche sull’appoggio della forza di centro-destra dell’ex ministro Likud, Moshe Khalon, che ha conquistato 10 seggi. Khalon si era già detto pronto – in campagna elettorale – a sostenere l’attuale premier, specie in cambio del ruolo di ministro delle Finanze nel prossimo governo.
Probabili alleati anche i coloni nazionalisti di “Focolare ebraico”, con 8 eletti (4 in meno del 2013), e l’altro partito religioso ultra-ortodosso “United Torah Judaism” (7 eletti). «Netanyahu ha vinto perché è riuscito a racimolare i voti dei conservatori sparsi per tutto il Paese, anche nei piccoli centri abitati, mentre gli avversari non avevano un candidato “game-changer” da proporre», commenta Tomer Doli, giornalista israeliano di Tel Aviv.
Secondo un’analisi condivisa in ambienti europei, e non solo, da questo voto emerge il maggior interesse dell’elettorato israeliano per i temi della sicurezza che non per quelli dell’economia, cavallo di battaglia dei laburisti. Ma non solo. Considerata l’impronta “estremista” che Netanyahu ha dato alla campagna elettorale – arrivando prima ad affermare che con lui non nascerà mai uno Stato palestinese, poi a stigmatizzare la partecipazione al voto degli elettori arabo-israeliani – se alle parole seguissero i fatti ci sarebbero almeno tre vittime illustri di questa sua vittoria.
In primo luogo il processo di pace coi palestinesi. Israele «ha scelto la via dell’occupazione e della colonizzazione e non del negoziato e del collaborazione», ha dichiarato Yasser Abed Rabbo, segretario generale dell’Olp.
In secondo luogo rischia di morire – se verrà, come pare, ripresentato il disegno di legge che definisce Israele come “Stato della Nazione ebraica” – la laicità dello Stato e il principio di non discriminazione dei cittadini arabo-israeliani (non a caso accorsi in massa a votare a queste elezioni contro Netanyahu). Infine è probabile che prosegua la costruzione di colonie israeliane illegali nei territori palestinesi occupati, in spregio della legalità internazionale.
Il quarto mandato di Benjamin Netanyahu – terzo consecutivo, un inedito nella storia del Paese – avrà poi anche conseguenze a livello geopolitico. Secondo gli analisti, i rapporti con la Casa Bianca scenderanno a un nuovo minimo storico, specie considerando che, con ogni probabilità, proseguirà il tentativo israeliano di sabotare il negoziato sul nucleare con l’Iran, su cui invece Obama sta investendo molto.
L’ostilità all’Iran e ai suoi alleati – in un momento in cui gli Usa invece stanno considerando di avvalersene in ottica anti-Isis, sicuramente in Iraq in vista dell’offensiva contro Mosul, forse anche in Siria dove è stato sdoganato un atteggiamento meno ostile nei confronti di Assad – avvicina poi Tel Aviv a Riad, in un asse di interessi che potrebbe essere determinante nei futuri equilibri della regione.
Altra probabile conseguenza – secondo alcuni esperti di strategia – sarà un altro attacco a Gaza tra un paio d’anni: nei confronti di Hamas i governi Netanyahu hanno sempre seguito la tattica del “tosare il prato” ogni pochi anni per sfoltire le fila dei guerriglieri e svuotarne i depositi di armi.
Lo scenario che emergerebbe dal rispetto delle promesse elettorali di Netanyahu sarebbe molto rischioso. La causa palestinese viene paragonata a una “bestia ferita”, privata di molti degli appoggi che aveva in passato – tanti Stati mediorientali sono stati travolti dalle Primavere Arabe o sono squassati dalla faida tra sunniti e sciiti – e con le casse vuote.
Esasperare ulteriormente la situazione potrebbe da un lato azzerare il rischio che nasca uno Stato palestinese nel prossimo futuro – secondo i desiderata del governo israeliano – ma dall’altro rischia di scatenare una nuova Intifada. A quel punto le opinioni pubbliche musulmane potrebbero scatenarsi nuovamente contro Israele e alcuni governi mediorientali potrebbero far ripartire i finanziamenti ad Hamas.
La speranza che circola in ambiente diplomatico è che, finita la campagna elettorale, i toni si smorzino e Netanyahu torni a un atteggiamento più pragmatico. «Storicamente Bibi è un cane che abbia ma non morde», sostiene ancora Tomer Doli. «Credo che le cose proseguiranno come sono sempre andate». Ma anche la continuità con certe politiche è pericolosa. Rischiare la bancarotta dell’Autorità nazionale palestinese, ad esempio, non conviene nemmeno a Israele.
Potrebbero forse avere successo le pressioni da parte degli Stati Uniti, con cui pure i rapporti sono tesi in questo momento. Gli Usa continuano infatti ad avere diverse leve nelle proprie mani, in primis gli aiuti militari a Tel Aviv, che nel 2014 hanno raggiunto i 3,1 miliardi di dollari. Finora, tuttavia, Netanyahu ha mostrato di saper ignorare le pressioni del presidente americano in carica e non fa mistero di fare il tifo per un repubblicano come suo successore. Con un Congresso in mano al Grand Old Party, questa potrebbe essere una buona mossa per mettere la propria linea politica al riparo da possibili future ritorsioni economiche.