La carezza e il pugno di Sufjan Stevens

La carezza e il pugno di Sufjan Stevens

Carrie & Lowell,il nuovo album di Sufjan Stevens che esce ufficialmente il 31 marzo prodotto dalla Asthmatic Kitty, è un disco che ammalia e insieme stordisce. È un disco intimo, decisamente autobiografico, scritto quasi totalmente in una camera ed è ispirato, anzi, meglio, provocato dalla morte della madre, Carrie.

La madre di Sufjan, che è morta nel 2012 per un cancro allo stomaco, non è stata una madre complicata: è stata probabilmente peggio, una madre assente, che ha abbandonato la famiglia quando Sufjan aveva soltanto un anno. Era, quello sì, una donna complicata, bipolare, depressa, alcolista, ha vissuto in case di cura, ogni tanto anche per strada.

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Il suo unico momento di pace sembra essere durato solo il giro di un lustro, ovvero quei 5 anni in cui è stata sposata con Lowell Brams, il patrigno di Sufjan (attuale direttore dell’etichetta discografica di Stevens), che si divide l’onore e l’onere del titolo. E non è certo un caso, perché questo album non è un atto di accusa, è piuttosto un atto di riconciliazione, o almeno un tentativo di cercare la pace oltre il dolore.

Si è parlato di Simon & Garfunkel, ma dietro questi 44 minuti cristallini c’è prima di tutto Sufjan Stevens

C’è chi ha paragonato Carrie & Lowell ai dischi di gruppi come i Kings of Convenience o Simon & Garfunkel. Ma dietro questi 44 minuti cristallini, fatti di chitarra, banjo, un po’ di piano, una spruzzatina di elettronica, una voce sussurrata dolcissima — persino troppo, ogni tanto — c’è prima di tutto Sufjan Stevens.

Sì, perché Carrie & Lowell è un album talmente intimo (talmente più intimo dei precedenti) da portare l’ascoltatore a pensare di star sfogliando un album privato di fotografie, o di origliare conversazioni, anzi confessioni, di un figlio a una madre: c’è il dolore per la scomparsa — quella mondana dell’abbandono della famiglia e quella definitiva, dolorosa della morte — c’è un senso di abbandono a tratti disarmante, si parla di suicidio, dello struggimento del non detto e del non scritto, di ombre, sangue, morte. Il tutto avvolto in un tessuto melodico di una dolcezza infinita.

Ammalia e insieme stordisce, dicevamo; è come una carezza che nasconde un pugno

Ammalia e insieme stordisce, dicevamo; è come una carezza che nasconde un pugno, dove la carezza è la dolcezza sussurrata di quella voce e di quegli arrangiamenti, morbidi, discreti, cullanti, mentre il pugno è dentro, è in quello che quella voce sussurra.

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«Non ascoltare questo disco se non puoi digerire la realtà che ci sta dietro», ha detto Sufjan Stevens in un’intervista rilasciata a Pitchfork. Una frase forte, che è stata ripresa da molti recensori di questo album come se fosse un avviso, un monito da parte dell’autore. Ma l’impressione è che si sbaglino, perché in quella intervista, subito dopo quella frase — tra l’altro segnalata in corsivo — c’è un’altra dichiarazione, che è quella che veramente conta:

Sono stato esplicito sulle esperienze orribili della mia vita, ma la mia speranza è sempre stata quella di essere un artista responsabile e di evitare di indulgere nella mia disperazione, o di sembrare un esibizionista. Non voglio trasformare l’ascoltatore in un complice della mia depressione, voglio soltanto onorare la mia esperienza. Non sono la vittima qui, e non sto cercando la simpatia di nessuno. Non incolpo i miei genitori, hanno fatto del loro meglio.

E ancora:

[queste canzoni] dovrebbero suonare come un testamento di un’esperienza che è universale: ognuno di noi soffre; la vita è dolore; e la morte e il punto fermo che chiude la frase, quindi facci i conti.

Insomma, se proprio dobbiamo accostare a questo album qualche nome che non sia il nome di Sufjan, i primi sarebbero Nick Drake e Will Oldham, che altri chiamano Bonnie Prince Billy. Il primo per la sensibilità spaventosa, il secondo per quella capacità di concentrare in 4 minuti, in qualche giro di chitarra e in poche, limpide, parole la definitività della vita e della morte.

So deal with it, dice Sufjan a Pitchfork, e intende dire «facci i conti con la vita e accettala, accetta la sua inevitabilità, accettane il dolore».

In una canzone che si intitola You Want That Picture — in Lie Down In The Light del 2008 — Bonnie Prince Billy, che in quel momento parla di tutt’altro, interseca e spiega la stessa ambizione verso la vita e verso la morte:

I stood very still in the night
and I looked at the sky
and knew someday I’d die
and then everything would be all right.

E anche nel caso di quest’ultimo Sufjan Stevens, arrivati all’ultima traccia, quel che rimane non è la pesantezza di un’esperienza terrificante. È la voglia di ritornare dentro quel mare tranquillo che è Carrie & Lowell. D’altronde a cosa servono gli artisti se non a prendere quel che noi proviamo nella vita, quello che ci fa soffrire, che ci strazia o che, al contrario, ci fa volare e sentire immortali, e trasformarlo in qualcosa di perfetto?

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