È un mercoledì sera di metà febbraio, siamo a Parigi, in Rue Beranger, una stradina come altre, a un centinaio di metri da Place de la République e a non molti di più da Rue du Temple e dai vicoli del Marais. Al civico 11 c’è la sede del quotidiano Libération, che però da qualche tempo non è la stessa di sempre.
Come ogni mercoledì, infatti, almeno da due mesi a questa parte, davanti alla fila di alberi, ancora spogli di frasche è parcheggiata una mezza dozzina di macchine della polizia. Sono lì per proteggere quel che rimane della redazione di Charlie Hebdo, che, in una delle sale della redazione di Libé messa a disposizione dal giornale, sta faticosamente cercando di rinascere per l’ennesima volta.
Saranno una quindicina i redattori presenti. C’è sicuramente Luz, c’è Willem, c’è Patrick Pelloux, Coco, Catherine, Foolz quasi certamente c’è anche Riss, che si è preso un permesso di qualche ora dall’ospedale dove sta facendo riabilitazione in seguito alle ferite del 7 gennaio. È un momento difficile, perché il 7 gennaio di quest’anno Charlie è morto è per la terza volta, e in pochi lo sanno meglio di quelli che ora, in quella sala degli uffici di Libération, discutono animatamente.
Dal 14 gennaio, data dell’uscita dell’ultimo numero, il 1179, è passato un mese senza pubblicazioni
È un momento difficile anche per un altro motivo. Dal 14 gennaio, data dell’uscita dell’ultimo numero, il 1179, è passato un mese senza pubblicazioni. È stato per tutti un mese durissimo, speso tra disperazione e rabbia, diviso tra la voglia di continuare — per Charb e gli altri che sono rimasti uccisi — e quella di prendersi una pausa di riflessione, per prendere la rincorsa e tornare con qualcosa di nuovo o addirittura per fermarsi.
Sì, «la possibilità di smettere del tutto si è posta», racconta Riss a Libération. E continua: «Tutti si aspettano che rifacciamo Charlie, ma nessuno pensa veramente al nostro stato d’animo. Forse pensano che siamo dei bravi piccoli soldatini di piombo, pronti a uscire dalla trincea ogni qualvolta serva per rifare il giornale, ma non si rendono conto di quel che abbiamo dovuto passare».
Nell’espressione “quel che abbiamo dovuto passare” usata da Riss non c’è soltanto tutto il terrore e l’angoscia per gli amici uccisi, e nemmeno il dolore fisico delle terapie a cui alcuni di loro devono ancora sottoporsi. C’è qualcosa forse più complicato da gestire, soprattutto per della gente come loro, gente che irride da sempre il potere e che prende di mira gli idoli, ma che nel giro di un mese si è trovata con un conto in banca di 30 milioni di euro e con uno status paradossale per Charlie: essere diventato un’icona.
L’essere diventati un’icona, aver venduto in una volta sola, il 14 gennaio, 8 milioni di copie contro le 50mila abituali, essere diventati, in tutto il mondo il sinonimo di libertà d’espressione è un compito difficile da gestire e la cosa più complicata è restare uniti. L’ultima minaccia per la vita di Charlie arriva proprio da lì, da quel tesoretto di 30 milioni di euro che in molti vorrebbero fosse utilizzato inventandosi un nuovo modello di gestione più collettiva.
Prima degli attentati la maggioranza del giornale era sostanzialmente in mano a tre persone
Prima degli attentati la maggioranza del giornale era sostanzialmente in mano a tre persone: Charb, Riss e Eric Portheault, il direttore amministrativo. Ma ora che il conto corrente è letteralmente esploso per le vendite e le donazioni, qualcosa dovrà cambiare. Lo pensa Riss, che, dice a Libé, che «effettivamente la questione del capitale arriverà sul tappeto prima opoi, non possiamo restare in due, Eric e io. Ma attenderemo qualche mese».
Anche il resto della redazione vuole affrontare la questione. Jean-Baptiste Thoret, che su Charlie scrive soprattutto di cinema, parla a nome di altri quando dice che la questione deve essere affrontata da subito. Ma per lui e gli altri i cambiamenti dovranno essere tanti: «Terremo fino all’estate con questo Charlie Hebdo di transizione. Poi dovrà esserci una rottura necessaria con il Charlie di prima del 7 gennaio. La nuova formula non avrà senso se non ci si interrogherà sullo statuto, l’azionariato e l’implicazione di ognuno di noi nel giornale».
La quarta vita di Charlie. Così ne parlano in Francia. L’ultima delle vite di un giornale che ne ha passate tante nei suoi 40 anni di vita. Dalla prima, quella del 1970, per continuare la pubblicazione di Hara Kiri; alla seconda, quella del 1992, per ridare vita, dopo dieci anni di pausa, a un’avventura che sembrava morta e sepolta, fino all’ultima, quella del 2009, quella di Charb, che prese il posto di Philippe Vals alla direzione.
Non possiamo ancora sapere cosa ne sarà di Charlie, di sicuro è impossibile pensare che non avrà un futuro
Non possiamo ancora sapere cosa ne sarà di Charlie, di sicuro è impossibile pensare che non avrà un futuro, ma è altrettanto complicato pensare a come si evolverà. La sfida che Riss, Luz e gli altri hanno davanti è di quelle difficili, c’è da ricostruire una redazione, trovare nuovi collaboratori, ravvivare le idee, tirarne fuori di nuove. Ma la rinascita sembra essere un gene forte nel dna di Charlie, fin dalla nascita, e in qualche modo se la caverà.
Per ora, in ogni caso, in attesa che la nuova sede sia pronta con tutte le misure di sicurezza del caso, la riunione del mercoledì si continua a tenere nella sala predisposta da Libé. E mentre ognuno dice la sua sulla prossima copertina, su una vignetta, su un tema da affrontare o su qualsiasi altra cosa, al di là del muro — racconta Isabelle Hanne su Libération — si sentono delle risate. Sono quelle dei poliziotti che si occupano della sicurezza dei redattori e che, intanto che li aspettano nella sala accanto, sfogliano la storia di Charlie, delle sue 3 vite e mezza. E da ridere ce n’è.