Nel giorno in cui avevo appuntamento per l’intervista con Aldo Busi, in libreria in questi giorni con il suo nuovo libro Vacche amiche (un’autobiografia non autorizzata), edito da Marsilio, sono arrivato con scrupoloso anticipo in un bar di Montichiari e ho cominciato a disporre sul tavolino all’esterno tutto l’armamentario: computer, copia del libro debitamente sottolineata, registratore, blocco per gli appunti, matita. Aldo Busi è arrivato in perfetto orario ma, a parte la puntualità, quasi niente di tutto il resto è andato come me lo aspettavo.
Lo scrittore è arrivato con una borsa intrecciata vuota al braccio e mi ha chiesto, dopo le presentazioni, se lo potevo accompagnare a fare la spesa. Ho dovuto raccogliere in fretta e furia tutto quanto e rassegnarmi a un incontro assai diverso dal previsto. Potrebbe essere riassunto da una scena, di lì a qualche minuto, in cui lo scrittore, tra le scansie, allarga il braccio sinistro verso i detersivi e dichiara: «Questa è l’intervista». Ma visto che tanta parte dell’incontro non è stata un’intervista, la racconterei in un modo diverso dalle tradizionali domande e risposte.
Atto I
Un piccolo supermercato nel centro di Montichiari
«Mi concedo un chinotto la settimana», dice Busi percorrendo la prima corsia. Dopo una breve sosta al banco frigorifero con le insalate in busta, si avvia a passo svelto verso il fondo del supermercato. Non lo so ancora, ma lì c’è il palcoscenico, e Busi sembra impaziente di raggiungerlo.
Mi presenta alle commesse dietro i banconi, un uomo e due signore sulla cinquantina. A una di loro, Busi chiede informazioni sulla figlia, che «studia tedesco da tanti tanti anni». Scambiano qualche battuta e poi, quando Busi si è spostato verso l’altro bancone, la signora mi dice: «Sta’ vicino a quell’uomo che è un’esperienza». Prendo il bustone della spesa e lo seguo.
Parliamo del più e del meno, prima che il discorso si sposti sull’assai appropriato tema dei generi alimentari. Busi denuncia il fatto che «il grana padano arriva tutto dalla Cina» – da dietro il bancone assicurano che il loro, di grana, è fatto tutto di materie prime padane – e che le uova arrivino dalla Polonia.
Quando cita le condizioni degli allevamenti intensivi, per dichiarare un suo personale embargo della pasta all’uovo, colgo l’occasione per cercare un appiglio verso un terreno in cui mi senta meno insicuro e nomino il libro di Safran Foer Se niente importa, che ha avuto un grande successo pochi anni fa, e che parla proprio di allevamenti industriali e sofferenze animali.
Busi mi guarda con un sorriso bonario e per la prima volta – ce ne saranno un paio di altre – apre la bocca in un gigantesco, leonino sbadiglio, coprendosi la bocca con la mano. «Ah-ah. A che ora parte Lei stasera?»
Poi si rivolge al commesso dietro il banco della carne e gli dice in dialetto bresciano, alzando la voce: «’Sculta, e mèter un alter al bancuu?» (“Senti, e mettere qualcun altro al bancone?”). Segue un rimprovero bonario sui tempi di attesa («I è vint minut c’aspeti»), ma Busi, in realtà, non sembra avere fretta. Ritorna al bancone di destra e riparte con le sue divagazioni. Racconta alle commesse un aneddoto sul «settantenne che mi viene a tagliare gli oleandri».
Entrano in scena molti altri compagni – compagne, più precisamente – di palcoscenico. Una signora, in coda anche lei, gli parla di quando c’erano ancora i bachi da seta; un’altra, più anziana, vestita con grande cura ed eleganza, lo saluta con calore. Gli dice che lo ha visto in televisione la sera prima. Busi dice sornione, dopo i convenevoli: «Mi fa piacere trovarla qui e non ancora in un ospedale psichiatrico».
Arriva un gruppetto di signore che riconoscono Busi e gli si avvicinano emozionate. Lui fiuta che non sono del posto e chiede da dove vengano (sono di Salò, e in trasferta perché ci sono gli sconti sulla carne). «Che simpatico, parla anche il dialetto», dice una alle altre, e lui si schermisce con un «Appena appena». Una delicata menzogna detta a chi sembra considerarlo un po’ troppo come una tigre in gabbia o un fenomeno da baraccone, dato che Busi, come è normale ai suoi tempi, è cresciuto dialettofono integrale. Protesta di nuovo perché il suo mezzo coniglio non arriva, poi finalmente lo ritira e si avvia verso un’altra corsia. Scambia ancora, allontanandosi, due battute con il gruppetto di Salò.
«Complimenti!», dice la signora più emozionata delle tre.
«Anche a lei!», risponde Busi.
«Ma che bello che è!»
«Ha visto che roba? Oggi mi sono lavato, anche».
«No no, ha una bella pelle fresca, è più bello così».
«Ma sa perché ho la pelle fresca? Perché ho scoperto una crema che è fatta con la bava di lumaca».
Così lo spettacolo continua, tra i racconti degli acciacchi dei presenti, commenti sulle uova o sulla carne, qualche battuta oscena che permette a Busi di piroettare da un dialoghetto all’altro con eleganza. Andiamo verso le casse. «Dico sempre un sacco di stronzate, ma loro le adorano, le amano, perché sono quelle cose da anni intatte, le cose del Medioevo…».
Suona il cellulare. È un noto conduttore televisivo che, mi aveva già informato Busi, lo aveva già cercato il giorno precedente. «No no, non mi disturba. È che io sto facendo teatro, teatro in un minimarket, dove tutte le donne sono mie, e io sono una specie di presidio medico ambulante, sessuologo nonché psichiatra… di tutto, guardi. Le cose più meravigliose, le oscenità più sofisticate, da caserma… e loro ridono, ridono…»
Atto II
Un tavolino all’esterno di un bar
La conversazione telefonica prosegue per diversi minuti, mentre Busi sceglie le ultime cose dagli scaffali, paga, esce dal supermercato e si siede al tavolino di un bar poco lontano. «…il fatto è che – dice al telefono – se Lei mi chiama per parlare delle tendine, di tendine a uncinetto, il solo fatto che ne parli io le rende interessanti… io voglio creare memoria. Quando io vado in televisione, ci sono, su dieci frasi, cinque che vengono memorizzate. È questo il mio orgoglio, il mio gagliardetto. Adesso, ad esempio, la frase che ricorre – una delle tante – essendo stato da Concita De Gregorio due giorni fa, è: “Ho avuto la fortuna di nascere povero”. Questa frase è talmente nuova, all’orecchio del telespettatore, che si rende conto che dove gli altri hanno visto un handicap, io ho visto una grande, grandissima opportunità e una fortuna… sta ribaltando i luoghi comuni! Quindi, se io vado in televisione aspiro a questo risultato…»
Quando la telefonata finisce, comincia la cosa più simile ad una intervista di tutta la mattina. Io sono lì, con la mia brava lista di domande, e lo scrittore è davanti a me, pronto a rispondere. Ma la finzione nella finzione non dura molto a lungo. Il passeggio mattutino è intenso, Busi saluta tutti e tutti lo salutano, le risposte sono spezzettate da intermezzi per i quali Busi dimostra con chiarezza molto più gusto. Subito dopo la prima domanda, ad esempio, una signora si ferma e dichiara – anche lei – di aver visto lo scrittore in televisione due giorni prima, poi fa qualche battuta non molto benevola su un’altra persona, una conoscenza comune. «Ciao Aldo, t’at sé fenomenale», saluta.
Busi si rivolge a me: «Questa è quella che io chiamo “la società non ostile”… Ma non perché io sono uno scrittore o famoso perché vado in televisione. Perché io sono un cittadino bravo, buono, paziente, lo sono sempre stato. Non ho mai rifiutato la parola a nessuno, Lei lo vede…».
Difende il suo ruolo di medico-sessuologo-psichiatra nel microcosmo del paese e ammette, tra le righe, che quella “non ostilità” gli è cara e necessaria: «Da quando sono uscito, ed era un quarto alle dieci, ad ora, se Lei ha fatto caso avrò avuto a che fare minimo con venti persone. Loro portano calore. Portano calore a me, perché sanno che ne ricevono di più. Loro sono in tanti, ma io sono da solo – e il tono con cui mi dice queste cose è per una volta senza sfumature di ironia e lento, intervallato da silenzi – e però conosco un po’ tutti i loro mali, conosco un po’ la loro vita…».
Chiedo a Busi se quella che definisce «solitudine affollata» nella “società non ostile” ha un parallelo nella comunità culturale italiana. Se si sente parte, insomma, di qualcosa al di fuori delle persone che conosce nel paese in cui vive. «Io faccio la distinzione fra scrittori e autori, perché lo scrittore in Italia sono io, autori ce ne sono mille. Io non riconosco l’esistenza di un solo altro scrittore italiano. Punto e basta. Non esistono, perché hanno troppe servitù e dipendono da questo e da quello, dal politico, dall’università, dal giornalista, dall’industria, dalla lobby. Devono versare troppi oboli. E chi versa un obolo non può disporre della libertà totale, o la più vasta possibile, verso la critica sociale. Uno scrittore che non applica la critica sociale, che scrittore è? Fa la novelletta, l’aneddoto. Fa la trama».
Provo a suggerire che non è stato sempre così. «“Non è stato sempre così” è una frase a cazzo, che non significa niente». Ma in passato… Busi sembra esasperato. «Sto parlando di adesso! Stiamo qua, stiamo parlando dell’Italia, di “scrittori” e “autori”, che già è un concetto che non è mai passato. Sono tutti qualcosa e scrittori, comico e scrittore, giornalista e scrittore, attore e scrittore. Io queste cose le ho scritte da trent’anni a questa parte. Ancora vent’anni fa, uno di questi autori disse che uno scrittore doveva frequentare gli scrittori, perché era lì la sua couche, la sua culla naturale. Mi sembra una sciocchezza totale. Lo scrittore non deve pensare che il suo essere scrittore sia una lobby, per cui quello può andare da quello per conoscere il vicedirettore di quel giornale. Mai fatta questa cosa qua».
Chiedo se non valga la pena di condividere le idee sull’arte o sulla letteratura. Altro moto di esasperazione. «Ma condivise con che cosa! Ma Lei mi dica chi ha mai detto qualcosa a me che io non sapessi già. Ma Lei sa quante decine di migliaia di libri ho letto, sa cosa significa studiare francese, inglese, tedesco e spagnolo dal nulla? Dal nulla? Si rende conto di quante decine di migliaia di ore sono stato compulsando dizionari, quante volte ho cercato la parola “casa” – che poi diventa magione, abitazione, nucleo familiare – dimenticandola ogni volta… ma soprattutto, sa quante decine di migliaia di ore io sono stato ad ascoltare senza capire o capendo un po’ o sempre di più senza poter esprimere nulla? Sa che disciplina c’è dietro questo? Lei si rende conto…» Chiedo chi abbia ascoltato per tante ore e con così poca comprensione. «La gente che parlava. Cosa credeva che ascoltassi, il cip cip dei passeri? Quelli non parlano le lingue straniere».
Busi definisce sé stesso. «Io non arrivo dalla biblioteca, io arrivo dall’onomatopea. Dal grido, che è ancora inarticolato e che io devo articolare. Devo articolare in alfabeto, in una struttura sintattica. Non sono un letterato – poi magari lo sono anche diventato, come sono diventato anche ballerino…»
E come mai dice che non è un letterato, se dice di aver studiato così tanto, chiedo. «Non mi interessa; quello è il letame, non è ancora l’albero. Io non faccio libri con i libri, o non soltanto, non mi interessa. C’è gente che fa i libri con la cultura, con quello che sa. Quando io scrivo, mi dimentico di quello che so, non è la cosa principale e prioritaria che mi sale alla penna. Quella va eliminata. Io, quando sento odore di citazione, pianto lì, non mi interessa».
Ma Busi dichiara anche la propria «disperazione» per non poter far parte di alcun gruppo («Dove mi vede? Con chi mi ci metto?»). Perché altri scrittori come lui, vivi, in giro non ce ne sono – e non solo scrittori. «Quando leggo un saggio – di filosofia, di sociologia, di antropologia, di morale, di estetica – è tutta acqua fresca, perché io l’ho già formalizzato, l’ho già scritto, l’ho già detto, magari vent’anni, trent’anni prima. Lei si rende conto che cosa significa la potenza, la forza che io ho saputo creare da me proprio perché non era dipendente da una famiglia, da uno stato di borghesia, di libri acquisiti. Ho soltanto la terza media. Il senso dell’esplorare, chi è che ce l’ha? Quello che ho passato, i lavori che ho fatto…»
Mi rendo conto della tautologia, ma faccio notare che ciascuno ha la sua storia. «Sì, però il fatto è che questa storia io la comprendo, allorché la mia non è compresa nella storia degli altri. Io, oltre alla mia, conosco le storie, perché mi sono interessato molto più degli altri che di me. Io sono andato a vedere come gli altri parlano. A me non interessava la cifra autoriale, per cui tutti i personaggi devono parlare più o meno come parlo io. Io, Aldo Busi, non farei mai un film su mia sorella architetto o sulla mamma maestra che muore. Io faccio un film su queste donne che ho visto lì, perché questa è la sfida estetica».
Intermezzo
Passano due signori sulla quarantina. Busi si interrompe per scambiare qualche battuta con loro – hanno un appuntamento per cena la sera successiva. Si avvicina un altro signore, con alcuni fogli in mano.
«Signor Busi, posso interromperLa?»
«Sì, mi sta portando un atto giudiziario?»
«No, assolutamente, è una cosa di poesie che facciamo noi alla libreria ***». Precisa subito data e ora dell’evento.
«Ma va’. E Lei chi è? Sta qua, è di Montichiari?»
Il deferente interlocutore non è di Montichiari. «Volevo sapere sinceramente se Lei era disponibile – e quanto chiedeva, chiaramente – per venire a presentare il Suo nuovo libro al caffé letterario. Gliela dico proprio spiccia».
«Ma è una cosa di una tale… fantascienza», risponde Busi, il tono piano e tranquillo.
«Ecco, va bene, a posto così allora, non c’è problema».
«Però sa, io sono anche strano, perché a Montichiari non farò mai niente perché ci vivo. Poi io costo seimila euro, a cachet. Voi dovreste fare un po’ di marchette, e tante. Poi però sono stravagante, nel senso che se mi gira… Però no, in questo momento ho tanti appuntamenti. Ma senta, come si fa a leggere le poesie? Sono difficilissime da leggere. Faccia un po’ vedere. A parte il fatto che io le detesto, le poesie…»
Come era prevedibile, le poesie del malcapitato non incontrano il favore di Busi. Legge qualche verso e lo stronca con ironia impietosa. Conclude restituendo i fogli: «Senta, complimenti per la faccia tosta. È sempre una gran cosa. Stia bene».
Atto III
Una strada di Montichiari
Mentre ritorniamo per le strade del paese verso casa di Busi, a intervista ormai conclusa, una maniglia della sporta a testa, lo scrittore con la candeggina da due litri nella destra, ci imbattiamo in una vigilessa che sta facendo una multa a un’auto. Ma il parcheggio del mezzo pone un problema delicato: il cartello che indica la fine della zona in cui è obbligatorio il disco orario è posizionato in modo che l’ultimo posto auto nella via – quello di cui si sta occupando la vigilessa – sporge oltre il limite, almeno in parte. Parcheggiare nello spazio bianco senza disco orario, ma con grande cura di restare interamente oltre il cartello, fa rischiare la sanzione o no?
Ne discutono la vigilessa e due uomini, i proprietari dell’auto, par di capire: ma pacatamente, senza malanimo, come se fosse davvero questione astratta di diritto e non di quattrini da pagare al comune. Busi si ferma a salutare la vigilessa – naturalmente la conosce, domani sera deve andare a cena con lei e il marito. Uno dei due uomini lo vede, ha come un’illuminazione, tira fuori subito da chissà dove un foglio di carta e una biro, chiede un autografo.
«Neanche per sogno, guardi. Ha comprato il libro?»
L’uomo sembra confuso. Promette che lo farà presto.
«Guardi, alla libreria qua dietro – e indica un negozio due vetrine più in là – io sono tenuto ad autografare le copie. Ne compri una se vuole l’autografo, è facile, stanno in vetrina».
L’uomo scatta, non prima aver insistito perché lo si aspetti. Ritorna trafelato dopo venti secondi, con una copia del libro in mano.
«Ma l’ha pagato?», chiede Busi.
«No, non ancora, ma sono d’accordo con la signora», risponde l’uomo, interdetto.
Busi insiste per accompagnare l’uomo all’interno, assistere di persona alla transazione economica e solo allora firmare il libro. Esce dalla libreria. «Sembrava un ladro, ma poi era una persona simpatica», dice quando riprendiamo la strada.
Sipario
Tornando da Montichiari, ho avuto l’impressione di aver incontrato un’incarnazione unica del principio che Luigi Pirandello espresse con la famosa espressione «O si vive o si scrive». Aldo Busi vive l’identità assoluta della personalità che dichiara, che esibisce nella pagina con quella che si presenta a chi lo incontra nel mondo reale.
È un’identità cercata, costruita, difesa con la gelosia di chi è diventato qualcosa di molto diverso da quello che tutti si aspettavano ragionevolmente da lui, in quanto uomo del suo ambiente e del suo paese. Quello che è diventato sembra continuare a stupirlo. Afferma ogni volta che può che il suo posto nel mondo, così imprevedibile sulla base dei puri dati anagrafici e sociali, se lo è scelto lui e nessuno ha il diritto di toglierlo da dove è arrivato con fatica.
C’è una certa disperazione in questa caparbietà, nel voler negare che i termini della questione si possano porre in altro modo rispetto a quelli che lui stesso declama; nell’asserire senza mezze misure che “io sono l’unico scrittore italiano vivente” – rifiutando, nell’unico modo in cui un critico potrebbe impostare la questione, una frase come “Aldo Busi è uno dei migliori scrittori italiani viventi”. È un posto a cui ha tutte le carte per ambire, ma di cui rifiuta integralmente il percorso che altri potrebbero formulare per portarcelo.
Dietro i giudizi sprezzanti per tutti gli altri scrittori che gli capitano a tiro – durante la nostra conversazione, ad esempio, Borges, Alice Munro, Arbasino – si percepisce l’ansia di chi sa di avere talento, ma teme che questo non gli sia riconosciuto, e in fin dei conti prova la paura irrazionale di non averne.
Busi è assertivo, divagante, autocelebrativo come il suo stile. Nella pagina come nella vita, è colto senza essere involuto, ricco senza essere verboso, vivo e urgente nel suo bisogno di scrivere come chi ne ha la vocazione e questa non si è ancora spenta, con un basso continuo di ironia – quella sottile, non dichiarata: l’unica vera ironia.
Nel suo ultimo libro parla tanto della sua storia personale quanto dell’attualità sociale e politica, nomina i Cie, la spending review e il Jobs Act, Equitalia, il processo Eternit, i pagamenti della Pubblica amministrazione, e su ciascun tema dichiara il suo punto di vista e la sua analisi con perentoria sicurezza e impermeabilità alla contraddizione.
Non è possibile scalfire quella scorza dura e testarda di chi ha deciso di mostrare solo le debolezze che sbandiera e i punti di forza che lui stesso si riconosce. “Ciò che sono io – scrive in Vacche amiche – ammesso che ti interessi qualcosa di me, sta nei miei libri”».