Non è detto che Kublai Khan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore.
Le città invisibili di Italo Calvino, uno dei libri più celebri e citati della storia della letteratura italiana del Novecento, comincia così, con un dubbio. Kublai è a casa, nella reggia di Kemenflù, a passeggiare tra i giardini di magnolie e ascoltare le descrizioni e i dispacci che i suoi messi portano dalle mille città dei suoi possedimenti. Sono città che non ha mai visto, alcune non le ha mai sentite nominare. Il Khan ascolta Marco Polo, il suo miglior ambasciatore, l’unico che, piuttosto che descrivere battaglie, carestie o nuove miniere appena scoperte, gli parla di scorci, umori, punti di vista o serate malinconiche di autunno. “Non è detto che ci creda”, scrive Calvino, e potremmo aggiungere che non importa. Perché nelle descrizioni di Marco Polo le città sono storie, con una loro grammatica e un loro alfabeto e Marco Polo le mappa, le racconta a suo modo.
Il Marco Polo di Italo Calvino, ereditando dal suo creatore l’immaginazione e l’abilità affabulativa, se la cava bene: gli bastano pochi giri di frasi un po’ criptiche, un paio di malinconici tramonti e qualche concetto pseudofilosofico. La vita vera è un po’ diversa, però, e chi le città le scopre e le racconta per lavoro su ogni città ci lavora molti mesi, fatti di viaggio, certo, ma non solo.
«Tutti gli amici mi invidiano, ma in realtà quello che invidiano è solo il 7% del mio lavoro»
«Tutti gli amici mi invidiano, ma in realtà quello che invidiano è solo il 7% del mio lavoro, tutto il resto costa tanta fatica e non è detto che sia piacevole quanto credono. Per scrivere la guida di Milano, per esempio, ho impiegato 4 mesi di scrittura densissima, per il Friuli invece 9, tra viaggio e scrittura, mentre Belgrado 5». A parlare è Luigi Farrauto, 34 anni, cartografo milanese, scrittore di guide per Lonely Planet — l’ultima delle quali è su Milano, in uscita a fine mese — ma soprattutto viaggiatore indomito, sia per lavoro che per piacere. Tra i suoi ultimi viaggi l’Iran, la Serbia, l’Etiopia, e poi Kyrgyzstan, Turkmenistan, Uzbekistan, senza contare il Friuli e la Serbia, visitate a lungo per lavorare alle ultime guide.
Tu, che viaggi anche per professione, diresti che c’è un metodo per viaggiare più giusto di altri?
È difficile dare una definizione univoca di una cosa così soggettiva e in qualche modo imprecisa come il viaggio e la scoperta di un luogo, di una città per esempio. Sono convinto che non ci sia un modo di viaggiare giusto o legittimo e un altro no. Men che meno credo che si possa fare una classifica e dire che un modo è migliore di un altro. Sarà banale dirlo, ma il viaggio è una dimensione personale, quindi ognuno ha il suo approccio, il suo obiettivo e i modi per scoprire una città se li trova da solo. Può scegliere anche di non scegliere, di affidarsi a un tour operator, ma io non posso certo giudicarlo per questo. Certamente non conoscerà la stessa città che conoscerò io, magari non uscirà nemmeno dall’albergo o dal resort, ma resta pur sempre il suo viaggio, anche se non è un viaggio come lo intendo io.
Quando arrivi in una città nuova, da cosa parti per muoverti?
Dalle mappe, dalle segnaletiche. Sono una mia ossessione — sono un cartografo di formazione — ed è il mio modo per approcciare i luoghi, soprattutto le città. E quindi quando arrivo in una città cerco quelle cose, le mappe, le segnaletiche. Ma anche qui, indipendentemente dal motivo e dal baricentro del tuo e del mio viaggio, sono entrambi legittimi e validissimi.
Ci sono due modi di viaggiare, ma non sono uno meglio dell’altro. Classificare le esperienze è una cosa che fanno i viaggiatori snob.
Ci sono due modi di viaggiare, ma non sono uno meglio dell’altro. Classificare le esperienze è una cosa che fanno i viaggiatori snob. Ora, non vorrei fare io lo snob dicendolo, ma mi sembra vero. Dire che sono un figo perché vado in giro con lo zaino in spalla e che tu invece sei uno sfigato perché vai con Alpitour non ha molto senso. La questione vera è che cosa voglio dal viaggio e dal mio tempo libero: voglio riproporre lo stesso confort che ho in Italia ma in un posto più bello o voglio cercare qualcosa di diverso? Prendi il mio esempio. I miei amici mi dicono sempre: «ma come, per rilassarti ti sei fatto un viaggio di 12mila chilometri?». Be’, io cerco quello, voglio quel tipo di adrenalina che forse non mi mette tranquillità, ma mi fa stare bene. Però sarei snob se dicessi che il mio è il modo migliore di viaggiare. È solo il mio. E io non sono migliore di nessun altro.
Quindi non è solo una banale frase da maglietta dire che il viaggio non è il luogo che visiti, ma sei tu?
Certo, può sembrare banale, ma in fondo è proprio così. Io, se sono a Cassinetta di Lugagnago, sul Naviglio Grande, provo la stessa sensazione di quando sono a New York. Magari non è proprio la stessa, ma sicuramente è dello stesso genere: perché sto facendo la stessa cosa. A me piace scoprire come sono fatti i posti, e mi piace a prescindere dal fatto che mi trovi a 10 chilometri da casa o a 20mila. Poi, sarà anche per una mia ossessione: se potessi visiterei tutte le città del mondo. E per usare un’altra frase banale, ma vera: ogni città è infinite città, dipende da cosa cerchi e da chi sei.
Una città non si visita come un elenco di posti: si apre una mappa e si guarda come è fatta
Come si scopre una città?
Non so se posso spiegare come si scopre una città, forse mi viene meglio spiegare come non si scopre. Non si visita come un elenco di posti, per esempio, ma piuttosto si apre una mappa e si guarda come è fatta. Anche qua, magari sembra banale, ma già la forma di una città dice un sacco di cose, racconta la sua storia, fa capire come funziona. Prendiamo l’esempio di Milano: se apri una mappa ti rendi conto che già ti fornisce tantissimi dati che possono guidarti nella sua scoperta. Se la guardi bene, quella mappa, noti che è fatta a cerchi concentrici, che ogni cerchio, come un albero, segna un passaggio del tempo e quindi un periodo storico diverso. Se fai qualche ricerca,poi, capiterai sulla storia delle pusterle, delle porte e stai già scoprendo la città. Quando scrivo una guida, mi piace dare queste informazioni al lettore, o meglio, più che informazioni, dargli spunti, idee, chiavi di lettura della città che si troveranno intorno.
Quali strumenti servono per visitare una città?
Ce ne sono infiniti, ognuno ha i suoi. C’è internet, ci sono i blog, le guide, le mappe. Il mio stile quando viaggio in città nuove è leggere la guida prima di partire, cercare informazioni e storie via internet, ma poi quando sono li me ne dimentico. Mi interessa la performance, per così dire, sono lì per vedere quello che c’è. Me lo dico sempre, in tutti i viaggi che ho fatto: sono in India, sono in Iran, sono in Siria, sono in Serbia, qualunque sia la città dove mi trovo, qualsiasi cosa vedo è una scoperta. Quando ero in Siria e mi proponevano magari di andare ad Aleppo o in un villaggio sperduto nel deserto io dicevo di sì, sempre. Potevano suggerirmi di visitare qualsiasi città, paese o villaggio, per me vale sempre la pena di vedere tutto.
Comincio la scoperta girando intorno al posto in cui dormo — prenoto solo la prima notte, poi decido come muovermi — e poi mi muovo per cerchi concentrici.
Tu come ti muovi in una città in cui arrivi per la prima volta?
Parto dall’architettura e dall’urbanistica. Per me scoprire una città è scoprire soprattutto la sua struttura morfologica. Comincio la scoperta girando intorno al posto in cui dormo — sono abituato a prenotare solo la prima notte, poi decido come muovermi lì — e quindi scopro la città quasi per cerchi concentrici. Mi muovo quasi sempre a piedi, tendo ad evitare di prendere mezzi pubblici, anche se devo camminare tanto per spostarmi. Mi piace di più come esperienza, mi piace camminare con la musica nelle orecchie e poi perché è quasi sempre nei tragitti che trovo le cose più belle e interessanti, faccio fotografie, incontro gente, ci chiacchiero. Sono incontri causali, ma fondamentali, perché alla fine sono quasi sempre quelli che mi svoltano il viaggio.
Il fattore “insider” per conoscere una città è un discorso delicato e più complesso di quel che può sembrare.
Appoggiarsi a qualcuno di “insider” ti facilita le cose? Lo fai?
Il fattore “insider” per conoscere una città è un discorso delicato e più complesso di quel che può sembrare. Il mondo dei viaggiatori zaino in spalla sembra che negli ultimi anni si sia diviso tra chi va in ostello e chi sceglie il couchsurfing. Io non sono un utilizzatore di couchsurfing, o meglio, capita anche che mi faccia ospitare da amici o da gente del posto, ma non credo che sia per forza una ricchezza per scoprire un luogo. Per prima cosa perché mi sembra di avere un filtro tra me e la città, un filtro di esperienze, gusti e abitudini che non sono i miei. Certo, si fanno un sacco di esperienze bellissime, si conoscono persone interessanti, si ha l’impressione di avere una shortcut per la conoscenza della città, ma io credo che in fondo non sia così vero, perché insieme al guadagno c’è anche la perdita di qualcosa. Insomma, non posso credere che la differenza la possa fare una modalità di viaggio, la differenza quando visiti e scopri una città la fai tu, sei tu e la città. Non voglio dire che sia uguale andarci in couchsurfing o in ostello, come non è uguale andarci in visita guidata o da soli, però il viaggio, la parte importante del viaggio, almeno, ce la metti tu, ce la mette il viaggiatore: senza curiosità non vai da nessuna parte, che tu ti muova in couchsurfing o con un tour operator. È quello che conta. Non puoi scoprire nulla se non se aperto e curioso verso quello che ti trovi di fronte, qualsiasi cosa sia.
Il rischio di usare gli smartphone è quello di voler vedere tutto, sapere tutto, senza in fondo vedere niente e sapere niente.
Cosa aggiunge o cosa toglie la tecnologia nella scoperta di un luogo?
Be’ ormai siamo nell’epoca delle cosiddette smart city e con il telefonino ora puoi scoprire tutto, in tempo reale. Sei davanti a un monumento, lo inquadri con lo smartphone e scopri la storia, le curiosità, i bar che ci sono vicini, i ristoranti. Le informazioni sulla città ti arrivano addosso a pioggia. Ora, non voglio fare quello che dice che la tecnologia ci sta togliendo qualcosa, che il bello è scoprire le cose a pezzettini, andarsele a cercare, però il rischio è quello di voler vedere tutto, sapere tutto, senza in fondo vedere niente e sapere niente. Un’altra tendenza che sta montando anche a causa dell’iperconnettività è quella dei blog che consigliano i viaggi. Io, per esempio, sono molto contrario alla moda ormai dilagante, soprattutto nei blog, di raccontare di una città “le 10 cose che nessuno ti direbbe mai”, o “i 5 posti che sulla Lonely Planet non troverete mai”.
Come si racconta una città?
Stai parlando con un cartografo: la risposta è chiaramente “con una mappa”. Una mappa è un racconto, una storia. E ogni mappa racconta qualcosa della città di cui parla, con linguaggi e codici diversi a seconda dell’obiettivo e del lettore. Se devo disegnare la mappa dei trasporti ho bisogno di un certo tipo di linguaggio, che ha una sua grammatica, se invece devo disegnare la mappa della Lonely ho bisogno di un altro linguaggio, di un’altra grammatica e per esempio devo ingrandire i monumenti. E soprattutto, ogni mappa, come ogni storia, ha un suo lettore elettivo, che deve essere il primo pensiero per chi la disegna. La mappa poi è anche un feticcio, un oggetto che ci rassicura perché ci dà una visione complessiva, un’interpretazione.
Che alfabeto ha una città?
Non posso non citarti Kevin Lynch e il suo libro più famoso, pubblicato negli anni Sessanta, L’immagine della città. Lynch diceva che nell’immagine di una città entrano in gioco cinque elementi: percorsi, margini, quartieri, nodi e punti di riferimento. Questa è la grammatica di una città, i caratteri con cui è scritta ma anche quelli che chiunque di noi usa per orientarsi, anche se non è un urbanista.
Scrivere la guida di una città cambia il tuo modo di visitarla?
No, direi di no. Non mi sembra che cambi il mio approccio al viaggio, sicuramente impatta e cambia radicalmente la dimensione del mio sforzo, perché non devo farmi sfuggire nulla. Perché quando scrivi una guida ci sono dei dati che non puoi omettere, ci sono aspetti che non puoi non affrontare. Di Milano, per esempio, non puoi non parlare del design, della moda, di San Siro, eccetera. Ma se qualcuno ti dice che non sei andato a vedere San Siro o se non hai fatto un giro in via Tortona o in via Ventura allora non hai visto Milano, be’, sta dicendo una fesseria.
Il render conto dello stupore è una delle cose più belle dello scrivere una guida, ed è anche una delle caratteristiche fondamentali del lavoro
Scrivere la guida di Milano, visto che è la mia città, senz’altro è stato più difficile, perché non c’è il distacco che io ho quando vado in una città per la prima volta, ma soprattutto perché più difficile metterci lo stesso stupore, la meraviglia, la magia della scoperta che mi provoca essere in una città che non conosco e che devo scoprire. È proprio il render conto di questo stupore una delle cose più belle dello scrivere una guida, ed è anche una delle caratteristiche fondamentali di una guida: se non ti fa venire voglia di partire appena l’hai letta vuol dire che non è stata fatta come si deve.
Viaggiare per lavoro ti ha fatto perdere il piacere del viaggio?
Questa è una bella domanda. Quest’estate, dopo aver finito di scrivere la guida del Friuli per Lonely, sono andato in Iran. Mentre camminavo per le strade effettivamente mi rendevo conto di essere molto più consapevole di cosa stavo facendo, proprio perché le esperienze di viaggio per scrivere le guide mi avevano reso tale. Quindi, sì, in qualche modo ti cambia, ma ti cambia in positivo io credo, non è una perdita di magia, e un arricchimento di esperienza e di conoscenza. Per esempio, ora quando guardo un’architettura la capisco molto meglio, la so situare nel tempo, mi dice molto di più di quello che mi diceva prima. Ora alla sensazione meramente estetica posso aggiungere la comprensione. Certo, poi c’è una tendenza che ti rimane anche nei viaggi personali, quella di raccogliere più informazioni di quelle che ti servono. Ma è un dettaglio, e non ti rovina per niente il viaggio. Perché viaggiare è come fare l’amore, non è che più lo fai e più ti annoi. Anzi, più la fai più la fai meglio. E non ci sono interferenze quando sei in giro per lavoro o per gioia personale: stai viaggiando comunque, in fondo è sempre un gran piacere.
Se tutti dicono che Milano non sembra Milano — frase che ho citato nella guida che ho scritto per Lonely Planet — forse è l’idea di Milano che hanno tutti che è sbagliata.
Concludiamo su Milano, di cui hai appena finito di scrivere. Se dovessi convincere qualcuno a venire a Milano cosa gli diresti?
Io verrei a Milano per due cose: per l’architettura, che secondo me è veramente una chicca — pensa solo ai cortili, che in molti, anche i milanesi, non conoscono — e per l’offerta culturale, che è veramente altissima, e anche qui, probabilmente persino molti milanesi non se ne accorgono. Poi c’è un fattore che rende Milano secondo me bellissima, ovvero che devi scoprirla, devi trovare le cose nascoste, devi avere tempo di scoprirle, perché sono veramente tante. E poi abbiamo il castello cittadino più straordinario d’Italia, abbiamo dei bellissimi musei e abbiamo un’offerta per il tempo libero veramente di alto livello: dal design e dalla moda fino agli aperitivi. E comunque, Milano è una città in cui moltissimi di quelli che ci vengono per la prima volta dicono «Non sembra Milano». E in fondo, se tutti, così spesso, dicono che Milano non sembra Milano — frase che ho citato nella guida che ho scritto per Lonely Planet — forse è l’idea di Milano che hanno tutti che è sbagliata: tutti pensano che sia brutta, grigia e sporca, e quando si trovano davanti qualcosa di bello, blu e pulito, dicono «Cavolo, non sembra Milano…».