Questa condizione dei trent’anni non è ancora del tutto chiara. Né per me, che li ho da relativamente poco, né per i trentenni in generale. E se c’è qualcosa di meno chiaro che avere trent’anni oggi, con i nostri lavori precari, le nostre speranze spesso mal riposte e le nostre classi medie che una volta si sarebbero chiamate basse, è l’immaginario dei trentenni. A metà tra quello di quando avevamo vent’anni noi e un altro, mutuato dalle generazioni passate e sconosciuto alle future, fatto di miti che non ci appartengono e che spesso non abbiamo nemmeno visto passare. I miei amici — e scrivo di loro solo per non parlare di me — ascoltano Bob Dylan e assorbono Woody Allen a grandi sorsate. Ma non il Dylan incerto di Shadows in the Night (2015) o l’Allen zoppicante di Magic in the Moonlight (2014) — caspita, se ci avessi provato non avrei trovato tanta identità in due titoli —, parliamo di The Freewheelin’ (1963), Blonde on Blonde (1966), Desire (1976), Annie Hall (1977), Manhattan (1979), Radio Days (1987). Parliamo di qualcosa che non abbiamo vissuto, per un imperdonabile ritardo di nascita, ma che conosciamo meglio della nostra contemporaneità e che, in un eccesso di preveggenza, pare che parli a noi. Trentenni, oggi.
Ora, fino a non molto tempo fa ero più che convinto del ragionamento malinconico che occupa il primo paragrafo di questo articolo, adesso ho qualche dubbio. È successa una cosa che mi ha fatto credere che, a ben voler cercare, esiste ancora un immaginario — per lo meno cinematografico — su cui possiamo contare. Certo, è qualcosa che a sua volta si rifà ai modelli passati, tra Jean-Luc Godard e Leonard Cohen, Bowe e tutto ciò a cui si è ispirato, però ha il pregio senza pari di mettere un cuscinetto tra noi e il passato e regalarci un’estetica di riferimento.
Frances Ha , di Noah Baumbach, scritto con Greta Gerwig, è un film del 2012 girato a bassissimo budget. Un pozzo di citazioni stuzzicanti e soddisfacenti, incise di prepotenza in un bianco e nero ammiccante e condite di riflessi del passato. Ma è anche una delle poche testimonianze in pellicola della malinconia di chi oggi ha trent’anni. La filosofia che accompagna Frances — interpretata dalla stessa Gerwig, classe 1983, che da sé potrebbe diventare icona di una generazione — è un misto di accettazione spensierata delle piccole disgrazie della vita e sfacciataggine antidepressiva. Quando perde il lavoro che le piace, viene lasciata dal fidanzato e abbandonata dalla migliore amica, si trova senza un posto dove stare e senza un soldo per l’affitto, Frances si sforza di non smettere di sorridere. E così fa per tutto il film. Da un appartamento all’altro, da un’amicizia all’altra, senza mai trovare nessuno con cui stare ma cercando di non perdere quella speranza autoimposta che ogni giorno la fa arrivare al tramonto. Probabilmente sono un romantico, ma nell’ottimismo sconsiderato di Gerwig leggo tutto lo spirito di una generazione che procede a tentoni, per lo meno ben direzionati.
L’idea di Frances Ha e più in generale del cosiddetto “Mumblecore”, cioè quel filone di film a basso costo e altissima resa visiva che dovrebbe esplorare le relazioni amorose e sociali tra in non-più-giovani ma non-ancora-vecchi, è quella di lasciare una testimonianza di quanto non è stato detto. Mettere in cornice una generazione senza modelli propri e lasciarla libera di riflettere su se stessa. Senza autocommiserarsi, ottimisticamente. Dio sa quanto ce n’è bisogno.
Prima di Frances Ha c’era Hanna Takes the Stairs di Joe Swanberg, del 2007 e prima ancora, a voler esagerare perché in effetti sballa un pochino le tempistiche, Garden State, di Zach Braff, uscito nel 2004. Il filo comune tra queste pellicole è che non c’è niente a sostenere la trama di più solido dei dialoghi. In un gioco che ricorda tanto quello delle promesse di stabilità infrante che si sono susseguite man mano che crescevamo, frequentavamo l’università e ci affacciavamo al mondo del lavoro. Cercando sempre di sorridere e aggirandoci per le strade dei grandi senza mai sentirci veramente adulti — lo siamo? Bisognerebbe pensarci. Il Mumblecore è la testimonianza tangibile del fatto che esistono registi cinquantenni che fanno grandi film, in grado di soddisfare uno spettro molto ampio di generazioni, e registi trentenni che fanno sostanzialmente la fame. Ma è anche la prova che quei registi trentenni, facendo la fame sono in grado di raccontare la loro condizione molto meglio di chi ha a disposizione i mezzi miliardari delle grandi produzioni. Guardando pellicole come Celeste and Jesse Forever, di Lee Toland Krieger, scritto con Rashida Jones, Starlet, di Sean Baker, interpretato da Dree Hemingway, Tiny Furniture, di Lena Dunham e New Low, di Adam Bowers, non si può non riconoscere il talento naturale degli interpreti e lo spiccato senso estetico di registi e direttori della fotografia. All’epoca di Frances Ha Baumbach girava con una Canon 5D, eppure ci sono scene in cui la fotografia sembra quella di Manhattan. «Mi piacciono le cose che sembrano sbagli», è una delle frasi del film più citate e riassume tutto: la produzione, la scrittura, il senso per lo smarrimento che il pubblico conosce bene e che vede raccontato in pellicola, ma anche la stessa passione per le citazioni. Tratto distintivo di chi ha tanto da citare e poco spazio per parlare.
Insomma, l’identità cinematografica dei trentenni resterà intatta finché esisterà il Mumblecore, ombelicale quanto basta a non disperdere le energie, che sono poche già di per loro. E sarà valorizzato finché esisteranno i festival indipendenti, che sempre di più aprono le porte della notorietà a chi non ha i mezzi e la credibilità per chiudere gli accordi importanti.