“Le scimmie”, il monolite di José Revueltas

“Le scimmie”, il monolite di José Revueltas

Si chiama Le scimmie, e non è né un romanzo né un racconto. È un monolite. Un piccolo monolite di poco meno di 40 pagine che in superficie sono fitte, compatte, quasi asfissianti per mancanza di aria tipografica, ma che racchiudono una forza magnetica e vorticosa che non lascia il tempo di un respiro.

È questo uno dei due titoli — anche l’altro è una perla, è Correzione di bozze in alta Provenza, dell’argentino Julio Cortàzar — con cui Sur, casa editrice romana specializzata in letteratura sudamericana, lancia la sua nuova collana Little Sur, che metterà in circolazione piccole perle in edizione tascabile.

Le scimmie non è né un romanzo né un racconto. È un monolite.

Le scimmie, questo affascinante e insieme terribile monolite, è una delle ultime opere che ci ha lasciato il messicano José Revueltas, ancora ben poco tradotto in Italia, uno scrittore e un uomo le cui cifre erano una imbattibile onestà intellettuale, una incredibile forza morale e, come curiosamente suggerisce il nome, una costante tensione alla rivolta.

Affascinante e insieme terribile. Affascinante nel suo fluire, fatto di periodi infiniti che costruiscono l’intreccio subordinata dopo subordinata. Ma attenzione, non c’è in Revueltas la minima idea, né la minima intenzione di tessere un tappeto narrativo dalle mille trame, barocco, stordente come un flusso di coscienza alla Joyce o alla Faulkner. Anche se scommetteremmo sul fatto che uno William avrebbe apprezzato, e non poco, queste Scimmie.

L’intento di Revueltas è rendere conto di una condanna, quella dell’uomo: la vita

L’intento di Revueltas è rendere conto di una condanna. Non quella che lui stesso sta scontando nel 1969, nel Carcere di Prevenzione di Città del Messico, quando scrive Le scimmie. Non quella dei tre detenuti tossicomani protagonisti del racconto, Albino, Polonio e un guercio idiota che tutti chiamano il Coglione. E nemmeno quella dei secondini, le Scimmie del titolo, «prigionieri da qualunque parte li si guardasse, ingabbiati dentro quel cubo dalle alte inferriate a due piani, dentro il loro vestito di stoffa blu e il berretto scintillante in testa», prigionieri tanto quanto i tre tossici, forse peggio.

La condanna di cui parla Revueltas è la condanna dell’uomo, la cui prigione non è per forza un palazzo con le sbarre alle finestre e delle scimmie imbruttite come secondini, ma è la vita.

«Siamo scimmie, governo e popolo, tutti ugualmente ignoranti, bruti, incoscienti»

«Le scimmie è un libro che pone una questione universale», scrive nel bellissimo testo posto a mo’ di postfazione la scrittrice e giornalista messicana Elena Poniatowska, che continua: «Siamo scimmie, governo e popolo, tutti ugualmente ignoranti, bruti, incoscienti. Prigionieri e poliziotti sono la stessa cosa, condividono la stessa condizione: gli uni e gli altri sono schiavizzati, uno non è migliore dell’altro».

E leggendo magistralmente il significato del libro, Elena Poniatowska ci ricorda anche l’ultimo ingrediente che ha fatto di José Revueltas un uomo incredibile, prima ancora di uno scrittore incredibile: il senso profondo e inattaccabile dell’uguaglianza, ma non quella ridicola, goffa imitazione che inseguiamo noi oggi con palliativi come le quote rosa o con provocazioni del tipo “La legge è uguale per tutti”. No, l’uguaglianza in cui credeva Revueltas è quella che lo portava a dare retta a chiunque come se fosse un suo pari.

Racconta ancora Elena Poniatowska che Revueltas «ascoltava perfino i più imbecilli, non c’era un briciolo di ironia nei suoi occhi, e quando questi finivano di parlare, prendeva la parola con la sua voce dolce, sempre più roca: “Be’, vede, caro compagno…”.

Revueltas fu un grande uomo e fu un grande scrittore. A dimostrarlo al lettore italiano, per ora, c’è questo piccolo capolavoro di poco meno di 40 pagine. Un monolite perfetto e inscalfibile. Un monolite che comincia così:

Le scimmie se ne stavano lì imprigionate, sì proprio loro, scimmia e scimmione; o meglio, scimmione e scimmione, tutti e due, nella loro gabbia, non ancora disperati, non disperati del tutto, con il loro andare da un’estremità all’altra, detenuti eppure in movimento, imprigionati dalla scala zoologica come se qualcuno, gli altri, l’umanità, avesse impietosamente deciso di non occuparsi più del loro problema, del problema di essere ridotti a scimmie, di cui d’altra parte neanche loro volevano rendersi davvero conto, non sapevano o non volevano, nient’altro che scimmie, prigionieri da qualunque parte li si guardasse, ingabbiati dentro quel cubo dalle alte inferriate a due piani, dentro il loro vestito di stoffa blu e il berretto scintillante in testa, in quel loro andare su e giù senza ammaestramento, naturale, eppure fisso, senza riuscire a fare il passo che avrebbe potuto farli uscire da quel18 la infraspecie in cui si muovevano, camminavano, copulavano, crudeli e senza memoria, scimmia e scimmione in Paradiso, identici, con lo stesso pelo e lo stesso sesso, ma scimmia e scimmione, imprigionati, fottuti.

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