Esterno, notte. Davanti a un piccolo cinema di quartiere, una lunga fila di persone attende l’inizio della prima del film della protagonista, Margherita (Margherita Buy), che in quel momento sta sognando. Tra gli spettatori in fila, Margherita sogna la madre, sogna se stessa da ragazzina, sogna il fratello Giovanni (Nanni Moretti).
«Fai qualcosa di diverso, rompi almeno uno schema, uno su duecento»
«Fai qualcosa di diverso, rompi almeno uno schema, uno su duecento». Anche se non fosse Nanni Moretti a dirla, sarebbe una di quelle la cui paternità si riconosce al volo, come parente della celeberrima «D’Alema, dì una cosa di sinistra!» di Aprile, e nella sua estrema sincerità e autoironia rivela con chiarezza quel che è ovvio fin dalla prima scena, ovvero che Giovanni e Margherita sono la stessa persona, Nanni Moretti, che come in ogni grande opera di autofiction, nasconde la sua voce dietro ognuno dei personaggi che sfilano nel racconto, incarnando una sorta di sovrapersonaggio che i meno temerari tra i narratologi chiamerebbero un Ur-narratore.
Margherita è l’alter ego narrativo di Nanni Moretti. E non è una gran scoperta, né una novità per Moretti, ma questa volta gli riesce proprio bene
Margherita è una regista di mezza età che è alle prese con la chiusura di un film che le sfugge di mano e, contemporaneamente, deve affrontare la malattia e la decadenza fisica della madre, che ugualmente le sfugge. Due elementi, questi, che sono una limpida dichiarazione, mai celata, neppure per un secondo: Margherita è l’alter ego narrativo di Nanni Moretti. E non è una gran scoperta, né una novità per Moretti, che ha sempre fatto dell’autobiografismo, fatto di manie e di idiosincrasie, la propria cifra stilistica, ma questa volta possiamo dire che gli riesce proprio bene.
In questo Mia madre — il dodicesimo film di Moretti, 4 anni dopo l’ultimo Habemus Papam durante le cui riprese il regista aveva perso realmente la madre — forse per la prima volta, il regista romano non si prende la scena, non scivola verso il proprio ombelico o verso la celebrazione del proprio ego e delle proprie manie, ma riesce a mettere insieme un ritratto intimo, delicato e sincero, della propria età, di quei 60 anni contro cui sta facendo i conti la generazione dei padri.
Moretti non si prende la scena, non scivola verso il proprio ombelico o verso la celebrazione del proprio ego e delle proprie manie.
Durante la conferenza stampa organizzata al Sacher di Roma — in streaming con l’Anteo di Milano — Nanni Moretti ha detto di aver voluto parlare di «un passaggio importante attraverso il quale siete passati in molti e che a me è capitato durante il montaggio del mio ultimo film: la morte della madre». Ed è una dichiarazione interessante, al di là del fatto che sia nata come riflesso dell’avere davanti una platea di giornalisti che ormai sono quasi tutti suoi coetanei, o forse per quella tendenza a sentirsi il centro del mondo che ha ogni generazione — e in modo particolare quella, i primi “giovani” della storia, del ’68, e, di conseguenza, forse anche i primi “vecchi”.
L’elemento interessante della dichiarazione di Moretti non è nella verità che esprime — una mezza verità come tutte le dichiarazioni che un autore fa sulla propria opera, sempre legittime, ma mai vere del senso assoluto del termine — quanto piuttosto nella sua parzialità. Perché per fortuna — e per bravura del regista — Mia madre non è un affatto un film generazionale, non parla soltanto a quella generazione che si sta affacciando alla vecchiaia e che inizia a fare i conti con la fine dei propri genitori, ovvero con la figura delle propria fine. No, Mia madre ha un carattere di universalità che gli permette di parlare a tutti, di toccare — come tocca — le corde più intime di ognuno degli spettatori, che abbia vent’anni e sia un nipote, o che ne abbia ottanta, e sia un nonno.
Il perché di questa riuscita universalità dipende da due motivi. Il primo, l’abbiamo già accennato, è l’ottima scelta di Moretti di mettersi “accanto al suo personaggio” — per usare un’espressione refrain del film — di non prendersi la scena, o almeno di non farlo dichiaratamente, ma lasciando scivolare la propria voce in ognuno dei personaggi, come un falsetto, come nella grande narrativa, che è sempre autobiografica.
Mia madre non è un film sulla morte dei propri genitori, esattamente come non è un film su come si fanno i film
Il secondo motivo è ancora più semplice: Mia madre non è un film sulla morte dei propri genitori, esattamente come non è un film su come si fanno i film. Mia madre è un film sull’inevitabile senso di inadeguatezza che l’uomo prova verso il mondo, verso la vita, la morte, il lavoro, i figli, la carriera, l’arte, un sentimento tipicamente umano che viene affrontato da Nanni Moretti in maniera molto intelligente, ovvero accettandolo, fino alla più sincera ammissione.
Mia madre è un film sull’inevitabile senso di inadeguatezza che l’uomo prova verso il mondo e verso la vita.
Ad ammettere la propria inadeguatezza è prima di tutto Margherita, che in una scena onirica e grottesca sogna la conferenza stampa di presentazione del proprio film e a un certo punto ammette: «Tutti pensano che io sia in grado di interpretare la realtà. Ma io non capisco più niente». Ma ad ammetterla sono anche altri personaggi: prima tra tutti la madre, splendidamente interpretata da Giulia Lazzarini, nel suo percorso verso propria morte tra consapevolezza e inconsapevolezza, tra un’analisi logica che non torna e tre passi verso il bagno che diventano lunghi tre chilometri; o ancora è l’attore, un divertente e divertito John Turturro, che prima implora di voler tornare alla realtà, e poi confessa di avere una malattia che gli impedisce di ricordarsi battute e volti delle persone. Ma è anche Nanni Moretti stesso, nella parte del fratello di Margherita, Giovanni.
Interno, giorno. Su una panchina di fronte all’ospedale dove è ricoverata la madre, Giovanni e Margherita parlano e fanno i conti, per la prima volta, con la morte imminente della madre, appena emersa dal colloquio con la dottoressa che la segue. Margherita, la parte più coriacea e problematica di quel sovrapersonaggio che è Nanni Moretti, non accetta la situazione e non vuole capire. Giovanni, invece, che interpreta la parte più pacifica, più lucida del sovrapersonaggio Moretti, cerca di affrontare la situazione. Ma questa volta l’inadeguato è lui, che infatti ammette di star ripetendo sempre le stesse cose, e confessa di non sapere cosa fare.
Un film intimo, che sa toccare senza retorica, che sa far piangere senza risultare patetico, ed è abbastanza sincero per parlare a tutti
Per chiudere: Mia madre è un film intimo, che sa toccare senza retorica, che sa far piangere senza risultare patetico, ed è abbastanza sincero per parlare a tutti, indipendentemente dall’età. In questo bisogna certamente fare un plauso a Moretti, ma anche a Valia Santella e Francesco Piccolo, che hanno lavorato insieme alla sceneggiatura e che sono riusciti a costruire i dialoghi giusti, misurati, onesti e mai forzatamente brillanti, capaci di essere dimessi quando occorre lasciar spazio all’empatia degli spettatori, ma anche di essere poco sopra le righe, come nella gran parte delle scene con protagonista John Torturro, che strappano risate in platea e alleggeriscono una tensione e un’emozione che comunque è sempre gestita perfettamente.