New York City, fine maggio 2015
Il taxi mi lascia davanti al grattacielo. Midtown in un pomeriggio buio, come fosse già notte. Lo spicchio di cielo inquadrato dai grattacieli promette burrasca.
Mi chiamo Derek Morgan.
Alcuni mi considerano uno dei più potenti banker di Wall Street, insediato al vertice della grande banca qui a Manhattan. Gli basta questo, gli basta credere a quello che vedono. E a me basta che lo pensino. Pochi sanno che sono tra quanti conducono una guerra invisibile, nello stato maggiore di un esercito senza insegne. Quei pochi mi chiamano “Generale”. Quei pochi sanno che non combatto per il profitto, ma per la supremazia sull’Occidente e dell’Occidente. Le politiche monetarie, i bond governativi, i mercati finanziari, per me, sono uno strumento di potere. Combatto per una causa: un grande disegno di egemonia. Nessuno canterà gli eventi di questo conflitto sotterraneo da cui gli eroi sono stati banditi. Ma non c’è il tempo di rammaricarsi. Oggi è giorno di battaglia, oggi si va alle grandi manovre.
Percorro in orizzontale il marciapiede. Un pomeriggio freddo e piovoso che non rispetta la stagione. È una primavera di cambiamenti, e tutto continua a cambiare dall’altra parte dell’Atlantico. Entro nel grande atrio e raggiungo l’ascensore. Governare i mutamenti è quello che fanno gli uomini come me. Governarli nel segno della conservazione.
Dentro la cabina sono solo. Estraggo la chiave e la infilo nella serratura sulla plancia dell’impianto. L’ascensore inizia a salire anche se non ho premuto alcun tasto. Non guadagno il centro della cabina, lo specchio restituisce solo una parte di me. Niente di più fedele, a pensarci. Ogni mutamento costringe a fermarsi e a pensare cosa si è stati fino a quel punto. E quelli come me non compaiono nel quadro, stanno oltre i margini dell’inquadratura. Restano dietro le quinte della scena, a muovere il riflettore. Decidono cosa illuminare sul palcoscenico. È questo che fanno.
Credono in un piano che ricomprenda ogni variabile. La realtà percepita è solo uno dei mondi possibili. Noi abitiamo i mille piani di un multiverso, e i mondi possiamo plasmarli. Abbiamo costruito la civiltà. Abbiamo creato benessere e ricchezza. Abbiamo collegato il pianeta edificando strade, ferrovie, nodi della rete telematica. Abbiamo perfino fornito strumenti per fare le rivoluzioni. La chiamano “speculazione”, le chiamano “bolle”. Invece è solo il motore della Storia. Perché noi siamo tutto: l’ordine che considera ogni variabile e ricomprende ogni sovversione. Siamo la medicina e il danno collaterale. Siamo la luce che illumina il mondo e acceca chi guarda.
L’ascensore rallenta, si ferma. Tredicesimo piano. La porta da cui sono entrato rimane chiusa. Sul lato opposto, invece, una seconda porta si apre lentamente. C’è un unico grande ambiente, sobrio, su due lati circondato da vetrate, che domina New York sconvolta dalla pioggia. Dentro ci sono già tutti: cinque uomini del board delle più importanti banche d’affari americane, un esponente della FED, un consulente del FMI, uno che ha buone entrature al Tesoro, a Washington. L’arredamento è costituito da un solo tavolo, di forma triangolare, intorno al quale sono disposte le poltrone.
Al tredicesimo piano del grattacielo, di fronte a questo tavolo, la Camelot del periodo kennediano sembra più lontana che mai. E anche i miti della New Economy e dei nuovi democratici di Clinton, anche quei sogni sono scoppiati come una bolla. Non ci si riunisce più attorno a tavole rotonde. Niente cavalieri, niente eroi.
Lancillotto ha smesso di cercare il Graal.
«Non serve un meteorologo» comincio a parlare in piedi, «per sentire che il vento sta cambiando. C’è un vecchio proverbio italiano: dice che lo scirocco si insinua dappertutto, senza troppo rumore, e lascia inchiodati. Bene, il vento nuovo in Europa è arrivato. Soffia da Sud, dalla Grecia e dalla Spagna. In pochi mesi, due penisole sul Mediterraneo stanno consumando discontinuità potenzialmente radicali. Dopo, potrebbe cambiare tutto. Dopo potrebbe essere troppo tardi. E se un cambiamento è in atto, va governato. Invece di prendere lo scirocco davanti, bisogna virare».
Mi osservano composti, intorno al tavolo. Hanno tutti la stessa divisa, la stessa che indosso io: completo blu, camicia bianca, il nodo della cravatta stretto intorno al colletto. Tengono le gambe accavallate allo stesso modo. La loro compostezza è educata, fredda. Scettica.
Riprendo a parlare: «L’Europa è uscita dall’anestesia, si è chiusa una fase. Adesso se ne apre un’altra, molto più complessa. Oggi come ieri dobbiamo porci sul crinale sottile che separa il “prima” dal “dopo”. Far sì che il domani non sia troppo diverso dall’oggi, e che conservi le tracce di ieri». Il lampo di un fulmine mi fa fermare un momento, il rombo che segue è dirompente. «Da decenni giochiamo una grande battaglia nel segno della continuità, della supremazia del nostro modo di vivere, della conservazione dell’Occidente. Abbiamo preso tempo. Abbiamo protratto, in una lunga notte bianca, gli ultimi chiarori del tramonto. Abbiamo trasformato ogni sommovimento strutturale in una congiuntura, ogni fattura irricomponibile in un ciclo. C’eravamo ieri, ci siamo oggi, e ci saremo domani. E quando noi non ci saremo, la nostra visione continuerà».