Negli ultimi anni la parola più ripetuta è crisi, anche nel mondo dell’editoria, la cui crisi è spesso dipinta come nera, profonda, strutturale, quasi irreversibile, apocalittica. Da una parte la paura del terremoto digitale, che per qualcuno poteva addirittura rischiare di prendere il posto della carta, dall’altra dei dati che mostravano una costante e quasi inesorabile erosione della popolazione dei lettori, che secondo l’Istat sarebbe ormai meno della metà della popolazione italiana.
Qualche tempo fa avevamo intervistato due editori — Antonio Monaco di Sonda e Pietro Biancardi di Iperborea — ponendo loro domande circa l’effettiva dimensione di questa crisi e la portata e le prospettive di quella che per molti osservatori pareva una caduta libera. Questa volta abbiamo parlato con Stefano Mauri, presidente di Gems, Gruppo Editoriale Mauri Spagnol, terzo gruppo italiano per quota di mercato, con circa il 10%, dietro Rizzoli, al 12, e Mondadori, al 28 (Stefano Mauri è anche socio de Linkiesta, ndr).
Cominciamo a parlare di questa crisi, quando è iniziata? Perché? A che punto siamo ora?
La flessione del mercato di libri è iniziata in Italia nell’agosto del 2011 quando è cominciato a suonare l’allarme spread. I consumatori si sono spaventati e hanno smesso di comprare tante cose, tra le quali anche i libri. Poi, nel 2012 hanno cominciato a comprare libri purché fossero a basso prezzo, salvo capire, nel 2013, che i libri a basso prezzo non erano un buon investimento e hanno capito che avrebbero dovuto, nel marasma dell’editoria e delle librerie, scegliere la qualità. E in effetti mi sembra che abbiano imparato a scegliere meglio. Questo anche grazie alle discussioni e i pareri sempre più fiorenti e ricchi che si scambiano sui social network, pareri e discussioni che precedono e quindi, in qualche modo, guidano gli acquisti. Ora, tra la fine del 2014 e questi primi mesi del 2015 anche in Italia la flessione sembra essersi arrestata, con un paio di anni di ritardo sugli Stati Uniti e uno buono sull’Inghilterra.
«La flessione si sta riducendo, e ci si può attendere che arriverà anche la ripresa, cosa che vediamo già negli Stati Uniti»
Su che dati si basa questa considerazione?
Allora, i dati che vengono divulgati più spesso sono i dati Nielsen, che sono molto precisi, ma che sono sempre più incompleti. Questo perché Nielsen, per essere sempre più precisa, censisce soltanto i canali di cui ha certezza, quelli che trasmettono le vendite puntuali. Non stima i canali nuovi, che non trasmettono le vendite, ovvero gran parte dell’e-commerce e quasi tutto il digitale. Noi nelle nostre stime integriamo i dati Nielsen con gli operatori non censiti, di cui monitoriamo la crescita e di cui misuriamo il peso sul mercato, e secondo le nostre stime la flessione è stata l’anno scorso del -0,8 % mentre, nel primo trimestre di quest’anno non c’è stata, il saldo è positivo. C’è stato in verità un momento di arresto ad aprile, in concomitanza di Pasqua, un dato che però, se aggregato a quello dei primi tre mesi, dà una flessione sul quadrimestre del -0,27 per cento. Diciamo quindi che la flessione si sta riducendo, e ci si può attendere che arriverà anche la ripresa, cosa che vediamo già negli Stati Uniti.
Ci sono stati degli interessi a far credere che il libro di carta fosse finito e che il destino di ogni lettore fosse comprarsi un reader e leggere in digitale
Perché la storia che ci siamo raccontati negli ultimi anni è diversa e molto più pessimista?
Si è diffusa un’altra storia perché la drammatizzazione fa notizia, ma anche perché ci sono stati degli interessi a far credere che il libro di carta fosse finito e che il destino di ogni lettore fosse comprarsi un reader e leggere in digitale. Questa cosa ha riguardato alcuni lettori, che per ragioni di comodità, di lavoro, di viaggio e soprattutto perché leggono tanto hanno optato per il reader, ma in fondo è una nicchia che, anche in America dove sono molto avanti, si è fermato al 25 per cento. Due mesi fa sono stato a New York, sono andato a trovare alcuni editori americani e ho notato un’aria di passata tempesta, di maggior consapevolezza del loro ruolo. Lì Amazon è molto forte e gli editori erano molto preoccupati che, grazie alle vendite ecommerce e gli ebook (dove Amazon ha il 65 per cento del mercato), potesse privarli del loro ruolo. Ma è una paura che sta scemando.
«Negli Stati uniti gli editori hanno preso consapevolezza della realtà, ovvero che un algoritmo non potrà sostituirli»
Perché Amazon non fa più così tanta paura?
Perché gli editori hanno visto che in questi anni Amazon ha investito milioni di dollari per tentare di fare il loro lavoro, ma non è riuscita a tirare fuori neanche un bestseller, anzi, è riuscita ad affossare degli autori di bestseller. Per questo credo che gli editori abbiano preso consapevolezza della realtà, ovvero che un algoritmo non potrà sostituirli. E poi c’è anche da considerare che si è assestato il mercato degli ebook, che qualche tempo fa si pensava dovesse prendere quasi il posto di quello cartaceo, e grazie a questa stabilizzazione gli editori hanno capito di non essere destinati a vedere confluire le loro vendite in un mercato dove c’è un monopolista spregiudicato come Amazon.
Quali sono i segnali dell’inversione di tendenza?
Negli Stati Uniti, per esempio, che sono avanti direi di un paio d’anni rispetto a noi, hanno ricominciato a investire: Harper ha comprato Arlequin e un importante editore di christian publishing; Random House ha rilevato la quota di Mondadori in Spagna e si è fuso con Penguin. Diciamo che hanno ricominciato ad aver valore le aziende editoriali librarie.
«In Italia l’idea che il libro fosse destinato a sparire ha preso piede per il fatto che le due più grandi aziende editoriali librarie sono molto forti in edicola, e lì hanno accumulato perdite»
Anche in Italia?
In Italia la Mondadori ha scorporato la divisione libri facendo vedere alle banche e al mondo della finanza che i libri hanno un destino diverso dall’informazione e una delle ragioni per cui, in Italia, l’idea che il libro fosse destinato a squagliarsi ha preso piede è proprio il fatto che le due più grandi aziende editoriali librarie siano anche aziende editoriali da edicola, la Mondadori con i suoi magazine, la Rizzoli con riviste e Corriere. E in questi anni le perdite che hanno registrato sono state ricondotte, sbagliando, alle trasformazioni dell’editoria. Ma bastava distinguere e guardare i conti, si sarebbe capito subito che le divisioni libri di Rizzoli e di Mondadori, se non sono in attivo, quantomeno pareggiano e anche noi, come Gems, pur avendo visto ridotti i nostri margini siamo in un sanissimo equilibrio economico.
In questo contesto come si spiega la possibile operazione Mondazzoli?
Si spiega come la spiegano loro: nasce dal desiderio di mantenere le dimensioni dell’impresa sostituendo, al fatturato che è venuto a mancare a causa del calo della pubblicità nei periodici, il fatturato dei libri, che a loro pare più resiliente come settore e più solido. Certamente questa operazione porrà dei problemi che l’antitrust non potrà fare a meno di prendere in considerazione e valutare. Sarebbe la prima volta in Europa che un gruppo raggiungerebbe il 38 per cento della quota di mercato grazie a una acquisizione L’antitrust quindi non avrà, io credo, una ricetta già pronta. Dovrà aprire un’istruttoria, sentire i concorrenti, gli investitori, le associazioni di categoria e trarre le sue conclusioni.
«L’operazione “Mondazzoli” porrà dei problemi che l’antitrust non potrà fare a meno di prendere in considerazione e valutare»
Se l’affare Mondazzoli andasse in porto Gems, in quanto secondo attore sul mercato insieme a Feltrinelli, avrebbe dei vantaggi?
Sul lato autori può essere. Perché Mondadori non è un editore come gli altri, è di Berlusconi e non è escluso che ad alcuni autori, soprattutto di saggistica, non stia bene passare. Abbiamo visto nel passato episodi di rifiuto, penso a scrittori di successo come Saviano o a premi Nobel come Saramago. Qualora Berlusconi continuasse la sua avventura politica, qualche condizionamento sulle scelte editoriali dopo la fusione potrebbe esserci, pur nell’ambito di un comportamento ostentatamente liberale.
E dal punto di vista delle contrattazioni e degli anticipi, Gems si potrebbe avvantaggiare?
Non credo cambierà molto, perché da quel punto di vista negli ultimi anni la Mondadori ha sempre avuto il sano comportamento di offrire degli anticipi che ragionevolmente poteva prevedere di recuperare. Ha sempre tenuto gli occhi sul boccino, diciamo. Come qualsiasi imprenditore assennato ha compiuto delle scelte amministrative sensate. Non credo che da quel lato ci saranno grandi rivoluzioni. Certamente ci potrebbe essere per noi qualche vantaggio nell’essere l’ovvia alternativa, in quanto secondo gruppo, a Mondazzoli.
«Una rondine non fa primavera e da un trimestre non si può estrapolare una tendenza, ma i segnali positivi ci sono»
Alcuni editori con i quali abbiamo parlato nelle scorse settimane ci hanno detto di avere chiuso il primo trimestre con risultati molto positivi. Si è veramente invertita la tendenza?
Diciamo subito che una rondine non fa primavera, e che da un trimestre non si può estrapolare una tendenza. Per esempio la Longanesi ha registrato nei primi tre mesi di quest’anno una crescita del 65 per cento. Ma questa dipende da fattori che sono anche contingenti dalla situazione generale dell’editoria, perché dipende dai titoli — per noi penso a qualche esordiente di successo come Lorenzo Marone o Cuore di rondine, e dai libri usciti a Natale, tra cui Wilbur Smith e Gramellini Gamberale. Quindi, ripeto, non credo che si possa ancora trarre una tendenza a partire dal buon andamento di un trimestre, o di una singola casa editrice. Gems nel complesso è in crescita del 4 per cento, ma ha al suo interno marchi diversi, e per una Longanesi che cresce al 65 per cento ci sono altre che scendono. L’editoria è fatta così.
Non è che a essere in crisi è l’editoria generalista? In fondo, voi siete un gruppo con tanti marchi, ognuno a presidiare una piccola nicchia…
In parte probabilmente sì. Ci sono due dati che confermerebbero in parte una lettura del genere, Il primo è che in questi anni di crisi quelli che si sono disaffezionati alla lettura sono stati proprio quelli che meno ci erano affezionati, i cosiddetti lettori occasionali, tant’è che secondo l’Istat la più grande flessione lato lettori si è avuta in questo periodo proprio sulla fascia di lettori deboli. Il secondo è che, se si guarda il lato retail, ad essere in calo sono le vendite nella grande distribuzione. I due fenomeni sembrerebbero collegati. E il dato che emerge è che i lettori forti resistono, il lettore abituale è abituato e non ha perso l’abitudine né per la crisi né per l’arrivo del digitale. E l’importanza del dato è che il lettore occasionale è, per ovvi motivi, quello che più facilmente si distrae dai consumi di quel tipo e occupa il proprio tempo libero magari con altro che non sia un libro, penso a film, serie tv, social network e quant’altro. Se si fosse registrato un calo importante dei lettori forti sarebbe stato molto più drammatico, anche perché sarebbe stato destabilizzante: un pubblico di riferimento formato prevalentemente da lettori incostanti e saltuari ti lega ancor più ai libri del momento, e rende l’attività editoriale più rischiosa e meno prevedibile. Direi che quindi sì, è un decisamente un bene.
«Una cosa positiva di #Ioleggoperché è stata che tanti editori concorrenti, per una volta hanno lavorato insieme per fare qualcosa di complesso, organizzato e articolato»
Recentemente si è chiusa #ioleggoperché, una grande campagna che aveva come obiettivo proprio la promozione della lettura tra i non lettori. Come giudica questa esperienza?
Il lato positivo, essendo un numero zero, è stato il fatto che tanti editori che normalmente sono concorrenti, per una volta hanno lavorato insieme per fare qualcosa di complesso, organizzato e articolato. Il coinvolgimento dei lettori militanti — dei messaggeri — è un dato che non mi stupisce, visto che in Italia i lettori sono da un bel po’ una minoranza e che è tipico delle minoranze farsi più agguerrite e militanti. Per quanto riguarda la serata televisiva, direi che le è mancato qualcosa, io credo un collante, un elemento che accompagnasse e spiegasse chi stava per parlare o chi aveva parlato e lo collegasse a tutto il resto, come le perle di una collana. Ho il sospetto che da casa sia sembrata più una specie di blob fatto di interventi giustapposti uno dopo l’altro, senza che si cogliesse il filo.
In ogni caso spero che si rifaccia che ci si congiunga anche in Italia a quella giornata che è il 23 aprile, la giornata mondiale del libro, che viene festeggiata in Spagna soprattutto, ma ormai in molti altri paesi, e che è l’occasione per ricordare anche ai lettori deboli e ai non lettori, almeno una volta all’anno, che ogni tanto leggere un libro non è così malaccio.
«Mi sembra grottesco dividere l’Italia antropologicamente, in tribù, da un parte chi legge, dall’altra chi non legge»
Cosa ne pensa del tentativo di Roberto Saviano, che è intervenuto ad Amici a favore della lettura?
Non ho seguito molto, ma se Saviano vuole parlare a quel pubblico e riesce, grazie al suo linguaggio, ad arrivare a loro, direi che fa bene. Non vedo perché ci dovrebbero essere delle barriere, ben venga, anche perché mi sembra grottesco dividersi antropologicamente in tribù.
Quale sarà il segnale che ci farà capire di essere usciti dalla crisi?
Direi tre trimestri senza flessioni. E ora siamo al primo trimestre in pari, se i prossimi seguiranno la tendenza al miglioramento direi che potremo stare più tranquilli. Io spero che sia quest’anno, ma nel settore dei libri c’è anche un’altra cosa da tenere presente, dipende anche dai libri stessi. Nell’anno in cui esce un grosso fenomeno come Dan Brown, Paolo Giordano e altri, quel grosso fenomeno è fatto anche di vendite aggiuntive che fanno bene a tutta la filiera. Un grosso fenomeno può spostare di un 2 per cento la bilancia, quindi, per come si sono messe le cose in questi ultimi mesi, portare un segno meno o un pareggio al positivo. Dipende anche dai libri dunque, e, da questo punto di vista, devo dire che riscontro una nota molto positiva: c’è una generazione di scrittori, anzi, soprattutto di scrittrici italiane, dai 20 ai 40 anni, che si sono appropriate della capacità dello storytelling di tipo anglosassone, crescendo con Harry Potter, e che sono anche l’unica categoria di lettori in crescita, e non solo in Italia. Quindi direi che potremmo affidare a loro una parte della speranza per il futuro dell’editoria.