Jeff Bridges, qui conosciuto come Jeffrey Lebowski, è seduto su un divano chiaro, non sa che sta per essere drogato pesantemente e quindi lasciato a correre in stato confusionale su una strada di Malibu. Ben Gazzara, qui conosciuto come Jackie Threehorn, è il proprietario del divano, della villa che lo contiene e della maggior parte dell’arredamento a tema erotico — soprattutto fallico — che la riempie. Dice una cosa, dice: «Siamo in competizione coi prodotti amatoriali, non ci conviene più investire nello sviluppo artistico, nelle storie valide, nei sentimenti. La gente ha dimenticato che il cervello è la più vasta zona erogena». Parla dell’industria del porno, che gli ha permesso di pagare la sua villa, la sua piscina, il suo divano e tutto quello che ha intorno. Il film è Il grande Lebowski, naturalmente, di Joel e Ethan Coen, distribuito nel 1998. La pornografia, allora, era in fase di cambiamento e il concetto che Threehorn esprime nella finzione cinematografica non cadeva molto lontano dalla realtà. Solo che le cose sono andate diversamente da come lui si sarebbe aspettato e la prova sta nelle persone che oggi costituiscono l’industria. Gente che lo sa, qual è la più vasta zona erogena.
Quando è uscito l’adattamento cinematografico di 50 sfumature di grigio, di E. L. James, diretto da Sam Taylor-Johnson, alcune testate hanno cominciato a scaldarsi attorno all’idea di comportamenti altamente licenziosi nelle sale cinematografiche da parte delle donne che, impazzite da quella che veniva definita con variazioni di “la scoperta del porno”, lasciavano le redini dei freni inibitori per abbandonarsi a pratiche auto-erotiche in pubblico — cosa che, apparentemente, non avevano mai fatto prima, nemmeno in privato. Anche nell’improbabile eventualità che questo genere di storie si basi su un fondamento di verità, c’è qualcosa che si perde nella leggenda: l’esistenza della vera pornografia, che oltretutto si va adattando ai gusti femminili con un certo orgoglio, da qualche anno a questa parte. In un’intervista, Rocco Siffredi lamentava la caduta del settore «Quando il punto focale dei film si è spostato dall’uomo alla donna», vale a dire quando le star hanno smesso di essere i Madingo, Rocco o John Holmes e le loro dotazioni spropositate, per lasciare il posto a maggiorate e platinate che hanno firmato la storia del genere. Jenna Jameson, da parte sua , nell’autobiografia (How to) Make Love Like a Porn Star, dichiara la fine dell’industria con la comparsa dell’amatoriale. Ecco, siamo appena oltre quel punto, ma la vicenda ha preso una piega inaspettata.
Più o meno quando Threehorn impartiva al Drugo una lezione gratuita sul futuro della pornografia, la pornografia cominciava a cambiare di passo. È semplice trovare un capro espiatorio: Internet. Più difficile trovare una spiegazione che trascenda ai gusti arbitrari di un pubblico che, tanto velocemente quanto inaspettatamente, ha scovato una via d’accesso a tutte le sue passioni più inconfessabili, senza muoversi dalla scrivania. Il porno stava diventando una faccenda troppo popolare per essere lasciata a se stessa. L’amatoriale stava in effetti soppiantando il tradizionale — niente più consegne a domicilio finite benissimo, riparazioni pagate con quello che si trova o segretarie che si sono comportate male e devono essere punite: un divano, una scrivania, una telecamera. Vicine di casa e riprese a circuito chiuso, tutto talmente artigianale da sembrare sofisticato. Ed è a questo punto che a qualcuno è venuta l’idea di rendere credibile la finzione e di investire circa un terzo di quanto richiedeva una produzione industriale fino a qualche anno prima, per confezionare un prodotto che sembrasse spontaneo ma che toccasse tutti i pulsanti che mandano ai pazzi il pubblico pagante. Dai preliminari al lieto fine, letteralmente.
Stoya è la prova vivente che Jackie Threehorn aveva ragione solo per la metà. Col tempo e con l’affermazione di etichette specializzate nel finto amatoriale — come le californiane BangBros e DareDorm — i gusti del pubblico si sono affinati ulteriormente e sono tornati a caccia di una certa dose di finzione, ma che fosse quanto più possibile verosimile. Insomma, recitazione di qualità a sostegno della soddisfazione di tutte le altre aspettative che il genere comporta. Bisognava investire nelle storie valide, nei sentimenti. È qui che entra in gioco l’intellettualismo.
Stoya è la prova vivente che Jackie Threehorn aveva ragione solo per la metà
Negli anni Settanta, il patron di Playboy Hugh Hefner ha scoperto che, dando alle sue conigliette una dose sufficiente di background, le loro fotografie sarebbero risultate più attraenti. Non bastava mostrare una bellissima ragazza sdraiata su una spiaggia, vestita solamente di brandelli della sua uniforme da majorette, ma bisognava anche approfondire le motivazioni che l’avevano portata lì. Parlare delle sue passioni, delle sue aspirazioni e dell’educazione musicale che l’ha indotta a candidarsi come primo tamburo della banda di San Fernandino. Stoya scrive su Vice, sul New York Times e su Esquire, ha un blog chiamato Graphic Descriptions su cui pubblica brevi componimenti a sfondo erotico — non 50 sfumature, ma vero erotismo —, si interessa di arte e di letteratura, e ha studiato balletto per sedici anni. Tutte cose che The Hef può anche avere attribuito alle sue ragazze, ma che raramente corrispondevano a verità. Nel 2013, nell’ambito del progetto Hysterical Literature, è stato diffuso un video in cui Stoya leggeva un libro procurandosi un orgasmo — non è l’unica personalità che si è prestata, ma è senz’altro quello che ha riscosso il maggior consenso. A quel punto il suo destino era dichiarato. Ama il suo lavoro, sia come modella che come attrice di film per adulti e ha da poco lanciato un progetto dal titolo TrenchcoatX, che — prendendo le basi dalla casa di produzione indipendente Digital Playground — persegue quel genere di pornointellettualismo che lei rappresenta.
La presenza delle star sui social media, il loro scrivere e parlare di passioni reali, alte e condivisibili le pone in una posizione se possibile ancora più desiderabile che se si limitassero a comparire nei video. Stoya, va detto, è bellissima. Inoltre, anche questo è importante, per due volte ha rifiutato l’offerta della sua casa di produzione di un operazione di accrescimento del seno a titolo gratuito. La sua vita al di fuori del porno è uno dei motivi del suo successo e non verrà dimenticata quando deciderà di ritirarsi. Non verrà rinnegata perché non è un’alternativa, ma l’evoluzione verso una nuova fase di autenticità dell’industria più plastificata di tutte, in cui gli esseri umani tornano a essere esseri umani. Artisti, in un certo senso. Al centro della scena, oggi, non ci sono donne né uomini da vetrina, non ci sono icone siliconate o superdotate, ma c’è la ricerca di una sensazione al contempo realistica e inequivocabile che smetta di essere una vicenda privata per avvicinarsi all’arte. Quantomai pubblica, universale e appagante sul lungo periodo. Quantomai vicina all’erotismo, alla sensualità.
La regista Erika Lust si è fatta conoscere con una serie di pellicole chiamate Xconfessions (NSFW), basate sulla messa in scena delle fantasie degli spettatori. A guardarle evitando le scene hardcore, sembra di avere di fronte un qualsiasi film indipendente, molto ben girato e sorprendentemente ben recitato. Lust è un’esponente del porno femminista, un movimento che ha preso piede in Spagna e si è poi trasferito verso le floride coste americane e che è probabilmente la più valida controprova esistente alle fantasiose illazioni sollevate attorno all’uscita di 50 sfumature. Non è tutto: per girare uno dei film di Lust, esattamente come per girare una pellicola indie buona per il Tribeca, non servono molti soldi, ma serve una vagonata di talento. I momenti sono studiati e le scene sono calibrate non soltanto sulla libido dello spettatore, ma anche sull’estetica cinematografica. Negli anni Novanta si poteva girare un film porno in un paio d’ore e in una giornata se ne potevano chiudere quattro, tutti uguali e finalizzati solamente alla soddisfazione momentanea — sì, esatto. Lust è una femminista non soltanto perché cerca di emancipare le donne dal ruolo di oggetti di piacere che una pornografia deviata le ha ritagliato attorno, ma anche perché pensa alle loro necessità di spettatrici. Cosa che prima d’ora era data — nella migliore e più ingenua delle ipotesi — per scontata. Proprio come pensare che le donne non si interessino al porno al punto da “scoprirlo” al cinema con la versione moderna di Nove settimane e mezzo.
Lust è una femminista perché pensa alle necessità delle sue spettatrici
Il pornointellettualismo va oltre la funzione primaria dell’intrattenimento per adulti, sia dando spazio e anzi importanza alla cultura dei suoi protagonisti — Sasha Grey che firma gli autografi “Lotta Continua” è una delle immagini più stuzzicanti in assoluto —, sia inducendo letture approfondite dei suoi prodotti. Nei casi di Stoya, Erika Lust, Petra Joy, Colby Keller e James Deen — per citarne alcuni — non c’è soltanto l’evoluzione dell’industria, ma anche la sua presa di coscienza. Ai tempi di Jenna Jameson, affermare di essere un’attrice o un attore pornografico, voleva dire avere il “coraggio di ammettere qualcosa” e associare a questa attività una passione artistica o letteraria era una rarità di cui congratularsi. Oggi la cultura è complementare all’industria, che come tutte le industrie risponde alle richieste di un pubblico. E se il pubblico si è fatto più esigente e meno generalista è perché ha imparato a crescere assieme alle sue star, a cui vuole bene, dentro e fuori dai video. Quindi: grazie, Stoya, per averci restituito l’erotismo letterario, magari in altre forme rispetto agli scritti di Anaïs Nin, ma sono anche altri tempi.