Abbiamo inquinato anche le stelle, il cielo è pieno di spazzatura umana

rifiuti in orbita

Lo spazio intorno alla Terra non è vuoto. Oltre al pulviscolo, girano rottami di vecchi razzi, satelliti in disuso, detriti di veicoli spaziali. È la “spazzatura dello spazio”, l’insieme di “debris” che circondano il pianeta e che, col tempo (ma si parla di secoli), finiranno per precipitare nell’atmosfera. Intanto, però, girano a velocità altissime e rischiano di creare nuove collisioni. E, di conseguenza, nuovi rottami.
 

Di cosa si tratta

Secondo le stime della Nasa, l’ammontare dei detriti spaziali (derivati dall’opera dell’uomo) è di svariate decine di milioni di elementi. Ma se si considerano i detriti con una larghezza compresa tra 1 e 10 cm, si scende a circa 500mila elementi. Se sono ancora più grandi, cioè con un peso stimato superiore a 1 chilogrammo, si parla di una cifra più ridotta: sarebbero “solo” 19mila. In generale, orbitano intorno alla Terra a un velocità di 28mila km/h. Come sa qualsiasi spettatore di Gravity, l’impatto con un detrito spaziale può causare danni anche gravi (ma, va detto, nella realtà sono così veloci che non vengono nemmeno visti in anticipo).

Ogni apparecchio umano lanciato nello spazio genera dei detriti. Quelli più piccoli derivano dalla polvere dei motori dei razzi, oppure dalla vernice erosa dalle superfici. Ogni collisione, poi, ne genera di nuovi ogni volta, in una procedura che potrebbe continuare a lungo. In ogni caso, la massa totale dei detriti intorno alla Terra è nota, ed è il totale di (quasi) tutto ciò che è stato lanciato nello spazio e che non è rientrato. Si aggira intorno alle 5.500 tonnellate.

C’è un po’ di tutto: da apparecchi che hanno esaurito la loro missione, come il Vanguard 1, lanciato dagli Usa nel 1958 – era il primo satellite artificiale che traeva la sua energia dal sole – e che, per altri 240 anni dovrà vagare intorno al pianeta, fino ai resti del Dmsp 213, cioè un satellite del programma di difesa meteorologica, che nel febbraio 2015 è esploso, dando vita a 149 pezzi che resteranno nello spazio molto a lungo. In mezzo, ci sono i satelliti della sorveglianza navale russi, lanciati negli anni ’70, i razzi propulsori upper stage, che a differenza dei booster degli shuttle, restano in orbita (dove completano la loro funzione) e, a volte esplodono (è successo nel 2000 al razzo cinese “lunga marcia” che è esploso polverizzandosi, e nel 2006 è toccato a un booster che trasportava un satellite Arabsat).

C’è un po’ di tutto: da apparecchi che hanno esaurito la loro missione, ai resti dei test condotti dall’Unione Sovietica e dagli Usa negli anni ’60 e ’70. In mezzo, guanti, telecamere e spazzatura

Ci sono anche i detriti “militari”, cioè il risultato di test condotti dall’Unione Sovietica e dagli Usa negli anni ’60 e ’70, miravano a colpire i satelliti avversari (test che durarono poco: i razzi, muniti di testate nucleari, con le loro esplosioni avevano danneggiato alcuni satelliti, e le radiazioni erano rimaste intrappolate nel campo magnetico terrestre, diventando pericolose). E ci sono anche i satelliti abbattuti perché non più funzionanti, o perché diventati pericolosi, come il satellite spia americano distrutto nel 2008 dagli Usa, e che portava con sé 450 chili di propulsore tossico.

Infine, a fluttuare nel vuoto si può incontrare anche un guanto smarrito da Ed White, astronauta Usa, durante la prima passeggiata americana nello spazio. Il suo collega Michael Collins, invece, si era lasciato scivolare una telecamera vicino a Gemini 10, che ora vaga tranquilla lungo la sua orbita. Ma l’ufficio oggetti smarriti nello spazio comprende anche una cassetta degli attrezzi (persa da Heidemarie Stefanyshyn-Piper), un’altra telecamera, una chiave inglese, uno spazzolino da denti (?). Qualche sfortunato potrebbe anche imbattersi nei sacchetti della spazzatura dei cosmonauti sovietici.

Perché è un problema

Solo di recente, cioè dal 1998, il tema dei detriti spaziali, i debris, è diventato fonte di preoccupazione. Prima di una missione, la preoccupazione principale è analizzare il rischio di un possibile impatto tra l’oggetto che si manda in orbita e i detriti spaziali. Del resto, l’esperienza parla chiaro. La Mir, stazione spaziale russa, è stata tra gli oggetti più colpiti dai detriti (anche a causa della sua lunga permanenza in funzione nello spazio). Nel 1986 l’esplosione di un booster upper-stage Ariane-1 ha liberato un centinaio di frammenti di discrete dimensioni che, nel 1996, hanno colpito il microsatellite francese Cerise. Il più grande scontro tra due corpi celesti artificiali, cioè la collisione tra un Kosmos 2251 (satellite per le comunicazioni russo, all’epoca disattivato) e il suo omologo statunitense Iridium 33 è avvenuta il 10 febbraio 2009, sopra la Siberia. Il numero di cocci e pezzi che si sono liberati è stato altissimo. Se poi fosse avvenuta vent’anni prima, forse avrebbe anche scatenato la terza guerra mondiale.

La quantità di detriti nello spazio è causata dalle collisioni degli apparecchi inviati dall’uomo. Ogni collisione genera nuovi detriti, in una catena che potrebbe continuare per sempre

Il mondo della spazzatura spaziale è molto delicato. I satelliti, soprattutto gli apparecchi geostazionari (cioè che volano a un’orbita che permette di mantenere la stessa angolatura rispetto a un preciso punto della Terra. Per chi li vede sembrano fissi), sono muniti di uno scudo Whipple, che ripara dal pulviscolo più ridotto. Non può, per ragioni pratiche, proteggere alcune componenti delicate come i pannelli solari che, giocoforza, risultano i più esposti. Altri apparecchi, invece, come ad esempio gli Shuttle, devono cavarsela studiando percorsi in territori sgombri e, in caso di imprevisto, manovre complicate per schivarli. È avvenuto, ad esempio, nel 1991, quando lo space shuttle americano Discovery, nella missione Sts-48, fu costretto a una deviazione per evitare l’impatto con i resti del satellite Kosmos 955.

Capitano anche incidenti bizzarri: nel 1983 lo shuttle Challenger era stato colpito da alcuni resti di vernice di alcuni satelliti, che hanno creato un’ammaccatura nella finestra frontale di oltre 1 millimetro. Lo stesso accadde dieci anni dopo, allo shuttle Endeavour. Con il tempo, per evitare di danneggiare troppo i veicoli, si è deciso di capovolgerli, una volta in orbita, in modo da esporre i motori (che non sono coinvolti nella manovra di atterraggio), o di usare la Stazione Spaziale come protezione. Insomma, ogni sistema era buono.
 

Le soluzioni? Nessuna

Ma non esiste un modo per eliminare questa spazzatura celeste? Il problema è stato posto, e confermato anche nel 2012, in un incontro a Bruxelles organizzato dal think tank Usa Secure World Foundation: se non si provvede alla rimozione dei detriti (almeno quelli più grandi, come i satelliti che hanno smesso di funzionare), lo spazio diventerà impraticabile perché troppo rischioso. È una cosa urgente, insomma.

Per correre ai ripari, sono stati tentati diversi approcci. In primo luogo, la prevenzione. Meglio evitare di creare nuovi detriti causati da collisioni specifiche tra veicoli spaziali di Paesi diversi. In questo modo, si tende a mitigare il problema, cioè a ridurlo per il futuro, studiando rotte e posizionamenti non a rischio. A questo proposito gli Usa hanno stilato alcune linee guida da seguire, sia per le sue agenzie civili, come la Nasa, sia per quelle militari. Lo stesso ha fatto anche la European Space Agency.

Per recuperare gli apparecchi dei lanci futuri, si è pensato di tutto. Ad esempio, dotarli di una quantità maggiore di carburante come riserva da impiegare alla fine della missione (i satelliti non durano più di qualche anno) per cambiare posizione e andare nella “graveyard orbit”, cioè l’orbita cimitero. In questo modo, soprattutto nel caso dei satelliti geostazionari, viene liberato spazio prezioso. Resta il problema che, comunque, il satellite rimane nello spazio: a causa del deterioramento del materiale, potrebbe sempre creare nuovi detriti che andranno poi a colpire i satelliti nell’orbita sottostante. E soprattutto, non è detto che il satellite, nei suoi momenti finali di vita, sia ancora in grado di azionare il propulsore per spostarsi.

Allora si è pensato di riportarli a Terra. Se non con un propulsore (potrebbe non funzionare, vedi sopra), con un cavo elettromagnetico, lungo circa 30 chilometri, che presente in un dispositivo indipendente, sarebbe srotolato alla fine della sua missione. Il cavo, interagendo con il campo magnetico terrestre, trasporterebbe verso il basso il satellite, fino a farlo dissolvere a contatto con l’atmosfera.

Come questo:

Oppure, c’è sempre il laser, che dalla Terra colpisce il detrito, lo rallenta e lo fa precipitare. Anche qui, però ci sono problemi: un laser del genere minerebbe i delicati equilibri delle convenzioni internazionali e, soprattutto, creerebbe comunque un pulviscolo che rimarrebbe nello spazio.

La cosa più efficace, allora, è di andarli a riprendere. Veicoli appositi – che avrebbero il non secondario difetto di essere molto costosi – potrebbero andare a caccia dei vecchi satelliti, afferarli in un abbraccio mortale e riportarli a Terra, o meglio: nell’atmosfera. È il progetto Clear Space One, del Centro Spaziale Svizzero, che coinvolge due nanosatelliti. È ancora allo studio il metodo di presa con cui il satellite spazzino afferrerebbe il vecchio rottame dello spazio.

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L’Esa, la Agenzia Spaziale Europea, studia un progetto analogo, e.Deorbit, e propone arpioni e reti. Il Giappone ha fatto alcuni test proprio con una rete. Ma era solo un esperimento.

Insomma, il numero dei detriti aumenta, e le soluzioni trovate sono ancora poche. C’è molta, troppa incertezza, sotto il cielo. Ma il problema, come si è capito, è sopra il cielo.

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