Tra poche ore uscirà nelle sale di tutto il mondo l’attesissimo Jurassic World, il quarto film della serie cominciata più di vent’anni fa da Steven Spielberg con Jurassic Park, tratto dal romanzo omonimo dello scrittore americano Michael Crichton.
Jurassic Park, a fronte di una spesa di circa 63 milioni di dollari, ne incassò quasi 20 volte tanto, superando a livello mondiale il miliardo di dollari al botteghino
All’epoca, era il 1993, il riscontro fu ottimo. Il film fu apprezzato da critica e pubblico, si aggiudicò tre Oscar — Miglior sonoro, Miglior montaggio sonoro, ma soprattutto Migliori effetti speciali — e, a fronte di una spesa di realizzazione di circa 63 milioni di dollari, ne incassò quasi 20 volte tanto, superando a livello mondiale il miliardo di dollari al botteghino. Il prodotto aveva funzionato perfettamente, confermando così l’intuizione della Universal, che già da qualche anno — almeno dalla seconda metà degli anni Ottanta, quando uscì Alla ricerca della valle incantata — era convinta che il tema dinosauri fosse una miniera d’oro. Fu proprio questa convinzione che portò la Universal a investire circa due milioni di dollari pur di aggiudicarsi i diritti del libro, battendo i competitor Warner, Columbia e Fox e facendo poi di tutto per assoldare Spielberg per le riprese.
Nel frattempo sono passati 22 anni e 2 sequel che hanno segnato un lento declino del filone, Jurassic World, coatato 200 milioni di dollari, è il tentativo di rilanciare puntando forte
Nel frattempo sono passati più di vent’anni e sono stati realizzati due sequel — Il mondo perduto (1997) e Jurassic Park III (2001) — che costarono rispettivamente 70 e 93 milioni di dollari, ma che non furono all’altezza del primo, registrando incassi globali in progressivo calo: poco più di 600 milioni per Il mondo perduto, ancora meno — 400 milioni — per Jurassic Park III, fortemente criticato da pubblico e critica. Un lento declino, dunque, una perdita di appeal e di incassi che, almeno nella speranza dei produttori, dovrebbe essere invertito da questo Jurassic World, una megaproduzione costata circa 200 milioni di dollari.
Ed eccoci arrivati al film, che, in qualche modo, inizia proprio da queste premesse: perché il parco messo in piedi nel 2005 a Isla Nublar, sui resti del fallimentare tentativo di Hammond, ha seguito la stessa parabola discendente della serie di film e, passati dieci anni dal grande successo iniziale, ora è in crisi. «I dinosauri non stupiscono più come una volta», dice all’inizio del film Claire, responsabile del parco e zia dei due ragazzi protagonisti. E continua: «Oggi ormai i bambini guardano uno Stegosauro come guarderebbero un elefante in uno zoo di città!».
L’unico modo che ha un parco di dinosauri per stupire è creare dinosauri sempre più grossi e più cattivi, in questo caso, una roba che si chiama Indominus Rex
L’unico modo cheil parco di divertimentiha per stare in piedi e continuare a far soldi è stupire, e l’unico modo che ha un parco di dinosauri per stupire è creare dinosauri sempre più grossi e più cattivi, in questo caso, una roba che si chiama Indominus Rex.
Ma quando crei dal nulla un dinosauro mai esistito, progettato ex novo dall’equipe di genetisti capeggiati dal Dottor Wu — lo stesso del primo Jurassic Park — tramite l’incrocio genetico di specie diverse, quello che ti ritrovi tra le mani è un mostro di 15 metri, una specie di Frankenstein che ha la la potenza di un T-Rex, la furbizia di un Velociraptor, una cattiveria indefinibile e pure un’intelligenza sbalorditiva. Ah, c’è anche un altro piccolo dettaglio, ereditato dalle rane: si mimetizza.
Ora, appena senti nominare una bestia del genere in un film che si chiama Jurassic World, prima ancora di vedere quanto è spaventosa, cattiva e intelligente, hai già capito perfettamente che quella è la “pistola di Cechov”, e che prima o poi sparerà, che in un film del genere significa che in qualche modo scapperà, seminerà il panico e azzannerà qualsiasi cosa di vivente gli capiterà davanti.
I film di questo tipo funzionano in questo modo: la trama generale in fondo è sempre la stessa, come uno standard di jazz, e la bravura di chi lo esegue dovrebbe stare, come il diavolo, nei dettagli
È scontato, non è nemmeno uno spoiler, ed è giusto così. Almeno fin qui. I film di questo tipo funzionano in questo modo: la trama generale in fondo è sempre la stessa, come uno standard di jazz, come una fiaba russa di quelle che analizzava Propp, e la bravura di chi lo esegue dovrebbe stare, come il diavolo, nei dettagli, nelle piccole variazioni che possono dare qualche scossone al film e determinare uno scarto rispetto alla versione di partenza.
Ed è proprio qui che Jurassic World si gioca la sua partita: sulla scommessa di rinnovare nei dettagli una trama ormai esausta, quella di Jurassic Park, dimostrando che si può fare un film su un percorso già segnato riuscendo a stupire gli spettatori. Una cosa che, come ha dimostrato in tutt’altro contesto Mad Max, si può fare. Alla grande.
Trevorrow costruisce un film identico a se stesso, incapace di fare altro, per stupire, che ricorrere allo stratagemma del dottor Wu: trasformare il tutto in una gara a chi ha il dinosauro più grosso
Ma Jurassic World non è Mad Max, e Colin Trevorrow non è George Miller, e infatti la scommessa la perde. Invece di stupire e portare avanti di qualche metro il format che si è ritrovato tra le mani, Trevorrow costruisce un film identico a se stesso, incapace di fare altro, per stupire, che ricorrere allo stratagemma del dottor Wu: buttare nella mischia un paio di mostri e trasformare il tutto in una gara a chi ha il dinosauro più grosso.
Per il resto è tutto perfettamente identico a quello che ci può aspettare, a cominciare dalla struttura narrativa: un inizio noiosissimo, la scontata fuga del mostro e l’altrettanto scontata scena finale di mezz’ora in cui spendere due terzi del budget degli effetti speciali. Davvero non si poteva fare di più?
Chris Pratt forse era l’unico che poteva salvare tutta la baracca con un po’ di sana autoironia, ma che purtroppo resta impelagato nella palude narrativa che gli hanno costruito intorno
Per non parlare dei personaggi, tutti stravisti e ultraprevedibili: a partire dalla coppia di ragazzini protagonisti — come sempre fratelli, il più grande come sempre in crisi adolescenziale, che vede nel fratello più piccolo, come sempre, un bambino, e che, facendo come sempre il brillantone, infila come sempre entrambi verso le fauci del dinosauro più grande e cattivo di tutti — passando dalla parente di turno, stavolta la zia, che come sempre è presa più dal lavoro che dai nipoti, che come sempre poi si rivede e che, come dannatamente sempre, si innamora dall’eroe di turno, un Chris Pratt che era l’unico che poteva salvare tutta la baracca con un po’ di sana autoironia, ma che purtroppo resta impelagato nella palude narrativa che gli hanno costruito intorno.
Un film per lunghi tratti noioso, condito di colpi di scena che non lo sono affatto, prevedibili almeno mezz’ora prima che accadano
Si possono fare tanti errori quando si gira il quarto episodio di una serie in cui nessuno crede più da quindici anni. E gli errori, come si dice, sono umani e si possono accettare. Qui però il problema è un altro. Perché c’è solo un peccato mortale che non devi commettere quando fai un film con i dinosauri: annoiare. E qui Trevorrow e la sua squadra riescono nell’impresa costruendo un film per lunghi tratti noioso, condito di colpi di scena che non lo sono affatto, prevedibili almeno mezz’ora prima che accadano.
Insomma, se questo è un film pensato per convincere chi aveva dodici anni nel 1993 e che aspettava la rivincita di Jurassic Park dopo vent’anni di declino, allora è un film toppato completamente. Se invece è un film pensato per fare impazzire chi dodici anni ce li ha oggi, be’, allora forse bastava girare solo la mezz’ora finale.