In un pomeriggio d’estate del 1973, Tennessee Williams entrava in un ufficio postale a Tangeri, in Marocco, per ritirare un pacco. Per prima cosa ha dovuto spiegare all’impiegato il motivo per cui il nome sul pacco — Tennessee — era diverso da quello sul passaporto — Thomas. Poi ha dovuto discutere per non vedersi confiscata parte il contenuto: una copia di un arcinoto magazine per uomini su cui compariva un suo articolo, erano i tempi in cui le grandi firme del panorama letterario americano scrivevano ancora su Playboy. Quindi ha dovuto aspettare pazientemente che l’impiegato sfogliasse una ad una tutte le lettere contenute nel pacco, accumulate nel suo studio americano e inoltrate in Marocco. «È la nuova legge», diceva l’impiegato rivolgendosi all’arabo che aveva accompagnato Williams. «Non possiamo farci niente».
Williams era stato diverse volte a Tangeri, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, come moltissimi scrittori e artisti americani, a caccia di una libertà quasi assoluta che poco a poco stava svanendo. I tempi del territorio franco, quelli in cui il Marocco era diviso tra i francesi e gli spagnoli e la città era un’oasi al di sopra delle leggi, erano finiti con la proclamazione dell’indipendenza nel 1956 e la reinstaurazione della monarchia. La libertà di Tangeri era durata qualche anno di più, per abitudine, ma aveva cominciato a incrinarsi alla fine degli anni Sessanta, con l’annessione del Sahara Occidentale e ora si sgretolava nella burocrazia di fronte agli occhi di Williams e del suo accompagnatore, lo scrittore berbero Mohamed Choukri, che lì era nato. «Basta così», aveva detto Williams battendosi le mani sulle ginocchia. «Devo andarmene da questo posto il prima possibile». Si era alzato, aveva lasciato l’ufficio postale e nel giro di una decina di giorni avrebbe lasciato per sempre il Marocco. Choukri non ha mai avuto il cuore di tradurgli l’ultima domanda dell’impiegato: «Ha preso il morbo, eh?», ammiccando all’inclinazione sessuale dello scrittore. Tangeri era finita. Era finito il tempo del Gran Café de Paris, degli scrittori e dei pittori. Era passato il tempo del Marocco di Casablanca e quello delle fumerie clandestine di cui tutti sapevano e che tutti amavano frequentare. Era venuto il tempo del re e dei turisti e le cose non sarebbero più cambiate.
«Tangeri è uno dei pochi posti al mondo in cui, a patto che non ti dedichi a furti, assassinii o forme più o meno crude di violenza antisociale, puoi ancora fare letteralmente quello che vuoi», diceva William S. Burroughs, che in Marocco ha passato un lungo periodo della sua vita. Probabilmente il più determinante, visto che qui, in qualche modo, ha cominciato a mettere assieme il suo capolavoro. Nel 1953, dopo aver lasciato il Messico in preda ai primi spasmi di un’angoscia che lo avrebbe inseguito per tutta la vita — nata da un “incidente” mai chiarito fino in fondo, che era risultato nell’uccisione della sua seconda moglie — Burroughs si era stabilito in una stanza in affitto nella casa di un protettore, noto per procurare incontri omosessuali a pagamento agli americani e gli inglesi di passaggio. «Non ho mai pulito la stanza una volta, i vestiti si accumulavano semplicemente sul pavimento assieme alla sporcizia. C’era la droga, i ragazzi e i miei pensieri», ha scritto. La produzione dei primi mesi a Tangeri avrebbe costituito parte di un lavoro più grande, che ancora non sapeva di avere in mente e al quale si riferiva come Interzone — lo stesso termine che in inglese definiva il territorio franco. Una terra di nessuno, un niente tra il Burroughs che aveva lasciato l’America e quello che sarebbe diventato di lì in avanti.
«Tangeri è uno dei pochi posti al mondo in cui puoi ancora fare quello che vuoi»
Il pasto nudo è sbocciato, grazie anche ad Allen Ginsberg e Jack Kerouac che lo avevano raggiunto dopo un breve ritorno negli Stati Uniti e che lo avevano aiutato a dare una forma agli scritti sparsi, nel 1954. La libertà totale che Burroughs aveva trovato a Tangeri lo aveva aiutato a dare una forma alle sue ossessioni e vita al romanzo che lo avrebbe consacrato a genio letterario. Quello che cercava in Marocco era la completa e indiscriminata liberazione da tutte le convenzioni sociali che lo avevano tenuto incatenato a un se stesso in cui non si riconosceva più da molti anni. Nel 1950, il giornalista Robert Ruark aveva scritto nella sua rubrica As I Was Saying: «In confronto a Tangeri, Sodoma è un picnic della parrocchia e Gomorra una riunione delle “Piccole Coccinelle”». Tanto era bastato per convincere Burroughs che qui avrebbe trovato la pace. Oppure, se non proprio la pace, qualcosa di altrettanto viscoso e assolvente. La soppressione sintetica delle preoccupazioni, iniettata nell’organismo come una medicina buona. Un calmante, un anestetico.
Tangieri era il posto in cui tutto era possibile, perché nessuno si preoccupava di niente. All’hotel El-Miniria e al Grand Café convergevano le migliori menti di una nuova corrente letteraria, tanto brillante quanto affamata della libertà di esprimersi e di esplorare. Una generazione che, in qualche modo, non trovava lo spazio di cui aveva bisogno in America o in Europa, perché quello spazio andava oltre ciò che allora era definito come “socialmente accettabile”. Tangeri era una corte dei miracoli, un punto di accumulo e di dispersione, una valvola di sfogo per chi non poteva che vivere ai margini. Più selvaggia di quello che era stato Parigi e più democratica di quello che sarebbe stato Goa, perché più necessaria, in un momento in cui niente faceva a meno della morale.
Choukri ha attraversato gli anni Sessanta prendendosi cura degli artisti americani, sia che fossero di passaggio, sia che avessero intenzione di rimanere per sempre. È diventato amico di Paul Bowles, uno dei primi a stabilirsi a Tangeri e uno tra gli ultimi ad andarsene — ma solo per cause di forza maggiore, dato che qui è morto nel 1999 — Jean Genet e Truman Capote e di loro ha scritto per anni — le sue memorie sono state raccolte nel volume In Tangier. È stato il punto di riferimento degli espatriati e dei reietti, li ha accompagnati attraverso gli eccessi e la ricerca di un equilibrio che non potevano trovare da nessun altra parte. Il territorio franco era il punto di normalizzazione delle esagerazioni e delle dipendenze. Hashish, eroina, prostituzione, libertinismo. Ma era anche il termine ultimo oltre il quale si poteva spingere la creatività umana, prima di piombare nell’asocialità. Chi voleva vivere di poco e avere tutto ciò di cui poteva sentire la mancanza, faceva in modo di andare a Tangeri, dove c’era tutto e non significava niente. «Volevo qualcosa di veramente e profondamente straniero — straniero, da cima a fondo — quanto più lontano dal centro della circonferenza — straniero, straniero in ogni cosa — che non esistesse nulla in grado di diluire la sua estraneità — niente che mi ricordasse un altro popolo o un’altra terra sotto il sole. E sì! A Tangeri l’ho trovato», scriveva Mark Twain verso la fine dell’Ottocento in The Innocents Abroad. Come in uno slancio profetico, vedeva quello che sarebbe venuto.
«In confronto a Tangeri, Sodoma è un picnic della parrocchia»
Quando nel 1947 Bowles si è trasferito a Tangeri, aveva in tasca l’anticipo per un romanzo accordato dall’editore Doubleday e di fronte a sé la solitudine e la prospettiva di infinito fittizio che è il deserto. Il romanzo — Il tè nel deserto, naturalmente, pubblicato poi da New Directions nel 1949 e incluso da Times tra i cento migliori libri di narrativa dell’epoca moderna — è stato rifiutato da chi lo aveva commissionato. «Volevano un romanzo», ha detto Bowles. «E io gli ho dato un insieme di sensazioni». L’autore, però, non se ne è mai andato, nemmeno dopo che tutti avevano lasciato Tangeri. Nemmeno dopo che Tennessee Williams ne aveva decretato la fine, le fumerie avevano chiuso e i bar si erano riempiti di turisti. «Luogo oscuro e punto di passaggio verso il riposo», scriveva del cielo del Sahara. «Raggiungilo, attraversa il tessuto di questo cielo protettivo. Riposa». Questo, probabilmente, rimane come il più evidente invito a perdersi, a lasciarsi alle spalle le difficoltà e a trasformarsi in una parte conforme al tutto di quel particolare angolo di Marocco in quegli anni. Dal quale si vedeva la Spagna ma che era l’esatto inverso dell’Europa, che non apparteneva a nessuno e per questo tutti potevano comandarlo, in cui tutti erano di passaggio e tutti volevano fermarsi. Per alleviare la sensazione di non far parte del resto del mondo.