C’è una scena, una delle più drammatiche del film Blade Runner, girato da Ridley Scott nel 1982, che è diventata negli anni una pietra miliare del cinema di tutti tempi. Siamo nel finale del film, è notte e una pioggia battente cade sui tetti di una Los Angeles irriconoscibile. Il detective Rick Deckard (interpretato da Harrison Ford), inseguito dall’ultimo replicante ancora in vita, Roy Batty (interpretato da Rutger Hauer), sembra spacciato, oscilla nel buio, aggrappato a una trave che lo trattiene dal baratro.
Roy, prossimo alla morte e desideroso di vendicare i suoi compagni uccisi, osserva spietato Deckard, il quale, stremato, sta per mollare la presa. Esattamente nel momento in cui Deckard si abbandona alla caduta, Roy lo afferra e lo trascina in salvo sul tetto, rispettando la prima legge della robotica di Asimov, e dice le sue ultime sofferenti parole, parole che, da quel momento, sono incise per sempre nella storia del cinema:
«Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare», dice Roy, «navi da combattimento in fiamme a largo dei bastioni di Orione. Ho visto raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser». Poi fa una breve pausa, sempre più sofferente, e continua: «E tutti questi momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime… nella pioggia».
È una scena drammatica e nello stesso tempo epica, tanto che si racconta che l’intera troupe, dopo aver ascoltato quelle parole recitate da Rutger Hauer, finita la scena si mise a piangere. Ma al di là della potenza drammatica di questa scena struggente e delle riflessioni che genera sulla natura del rapporto tra uomo e macchina, in quelle parole ritroviamo schegge di immagini che ci riportano a quello che ormai è un grande classico della fantascienza spaziale: la battaglia galattica, la guerra stellare che proprio tra gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, grazie anche alle saghe di Star Wars e Star Trek, entrarono definitivamente nell’immaginario collettivo.
La guerra stellare non è, come potremmo essere portati a immaginare, un prodotto della terza rivoluzione industriale o del Novecento, ma ha le sue radici molto prima, addirittura alla fine del II secolo dopo Cristo
Ci entrarono definitivamente, e l’avverbio non è di troppo, perché non ci stavano entrando per la prima volta. Nella storia della narrativa, infatti, il topos della guerra stellare non è, come potremmo essere portati a immaginare, un prodotto della terza rivoluzione industriale o del Novecento, ma ha le sue radici molto prima, addirittura alla fine del II secolo dopo Cristo, quando il turco Luciano di Samosata si inventò il primo racconto fantascientifico della storia, scritto presumibilmente intorno al 180 d.C. e dal titolo Una storia vera.
La fortuna di quest’opera è legata a doppio filo al suo bizzarro contenuto, ovvero le avventure fantastiche di Luciano in giro per il mondo e oltre, ma, soprattutto, è legata a una delle storie che ne compongono la pazzesca trama: il primo viaggio spaziale e la prima guerra stellare della storia delle letteratura.
Si dice che Luciano, che dichiara già nell’incipit dell’opera di mentire spudoratamente e di inventarsi tutto, abbia iniziato a scrivere questa bislacca avventura ad Atene, città dove passò gli ultimi anni della sua vita, verso la fine del II secolo dopo Cristo. Luciano era un retore; parlava e scriveva perfettamente in greco e, dopo una vita passata tra la Siria, l’Egitto e Roma — dove stette qualche anno in qualità di ambasciatore — si trasferì ad Atene. Fu lì, negli ultimi anni della sua vita, che si dice abbia scritto un breve saggio polemico contro gli storici del tempo, colpevoli secondo lui di tramandare falsità in nome di un’ossequiosa ed eccessiva adulazione dei potenti di turno.
La scrittura è soprattutto finzione e con le parole si può dimostrare tutto perché, quando si parla di finzione, non ci sono limiti, né regole
Ma un breve saggio non gli sembrava sufficiente. Probabilmente Luciano, che aveva viaggiato e conosciuto larga parte di quello che allora era il mondo conosciuto, aveva capito che il mondo non si cambia a spallate, ma con gli esempi, e che, più efficace di un attacco, è una presa in giro. Fu per questo, probabilmente, che una sera tirò fuori una pergamena e un calamo e iniziò a scrivere le cose più pazze che gli venivano in mente, per dimostrare con ironia agli storiografi che stava attaccando, ma anche agli scrittori, da Erodoto a Omero, che con la scrittura è soprattutto finzione, che con le parole si può dimostrare tutto e che, quando si parla di finzione, non ci sono limiti, né regole.
Il viaggio fantastico di Luciano, come tutti i viaggi fantastici pre Colombo, inizia superando i confini occidentali del mondo conosciuto, le Colonne d’Ercole. Da lì, dopo essere stati in balia di una tempesta per 80 giorni ed essere approdati su un’isola fantastica, partono — in realtà un po’ inconsapevolmente, per il primo viaggio nello Spazio della storia:
Verso mezzogiorno, sparita l’isola, un turbine improvviso fece roteare la nave e la sollevò in alto, a quasi tremila stadi [circa 54 chilometri ndr], non deponendola più sul mare, e così, sospesa per aria, fu trasportata da un vento che ne gonfiava tutte le vele. Viaggiammo sospesi per aria per sette giorni e sette notti, poi, l’ottavo giorno, nell’aria vedemmo una grande terra, una specie di isola, lucente, sferica, di grande splendore. Una volta avvicinaticisi e approdati, scendemmo dalla nave e ci ritrovammo in un paese abitato e coltivato. Di giorno non vedemmo nulla, ma di notte ci apparvero altre isole vicine, alcune più grandi, alcune più piccole, del colore del fuoco, e un’altra terra, più giù, che aveva città, e fiumi, e mari, e boschi, e monti, facendoci pensare che fosse questa su cui noi viviamo. Dopo aver deciso di inoltrarci alla scoperta di quella terra, venimmo attaccati e catturati dagli Ippogrifi, così si chiamano in quel posto. Gli Ippogrifi sono uomini che cavalcando degli immensi grifoni, come fossero cavalli alati: i grifoni sono grandi, la maggior parte ha tre teste, e se volete farvi un’idea della loro grandezza pensate che hanno le penne e più lunghe e massicce dell’albero di un galeone. Questi Ippogrifi hanno l’ordine di pattugliare quella terra e, se incontrano dei forestieri, di portarli dal re: e proprio per questo ci catturarono e ci portarono da lui. Quando il re ci vide ci squadrò e ci disse: «Ebbene forestieri, siete greci?». E poi, alla nostra risposta affermativa, ci chiese: «E come ci siete arrivati fin qui, attraversando tanto spazio vuoto?». Noi gli raccontammo le nostre avventure per filo e per segno, dopo di ché il re ci parlò di lui, del fatto che fosse anche lui un uomo, che si chiamava Endimione, e di come accadde che un giorno, mentre dormiva, fu rapito dalla Terra e si ritrovo lì, diventando poi re del paese. «Questa», ci disse, «è quella terra che voi vedete da laggiù e che chiamate Luna. State tranquilli, e non abbiate paura, perché non non vi mancherà nulla. Se vincerò la guerra contro gli abitanti del Sole, voi vivrete con me una vita felicissima.
Insomma, Luciano e i suoi compagni d’avventura non solo sono i primi uomini ad arrivare sulla Luna, ma sono arrivati proprio nel momento giusto per essere anche i primi testimoni di una guerra stellare della storia. Così continua il racconto:
L’esercito era di centomila guerrieri, senza i bagaglioni, i macchinisti, i fanti, e gli aiuti che si aspettavano dagli alleati: erano ottantamila ippogrifi, e ventimila cavalcavano su gli Erbalati, uccelli grandissimi, che invece di penne erano ricoperti di foglie, con ali simili alle foglie di lattuga. Accanto a loro c’erano le schiere di Scagliamiglio, e di Aglipugnanti. Erano arrivati degli aiuti anche dall’Orsa, trentamila Pulciarceri, e cinquantamila Corriventi. I Pulciarceri cavalcavano pulci giganti, ognuna grande quanto dodici elefanti: i Corriventi sono fantaccini, che volano senza ali, in questo modo: si stringono alla cintura delle lunghe gonnelle e, facendole gonfiare dal vento come vele, volano come navicelle, e in battaglia hanno il ruolo delle truppe leggere. […] Queste erano le forze che componevano l’esercito di Endimione. Le armi erano le stesse per tutti: elmi di baccelli di fave, perché le fave lassù crescono giganti e durissime; corazze a squame, fatte di gusci di lupini cuciti insieme, perché lì il guscio del lupino è impenetrabile come il corno; e poi scudi e spade come l’usano i Greci. Arrivata l’ora della battaglia gli eserciti si schierarono così: nella parte destra c’erano gli Ippogrifi con Endimione circondato dai suoi fedelissimi, e tra questi anche noi; nella parte sinistra c’erano gli Erbalati; e al centro i rinforzi, ciascuno nel suo gruppo. I fanti, poi, che erano circa sessanta milioni, furono collocati a questo modo. Lassù ci sono dei ragni giganti, ciascuno dei quali è più grande di un’isola delle Cicladi: fu a loro che venne ordindato di stendere le loro tele nello Spazio tra la Luna ed Espero, e, proprio su quel campo di ragnatela venne schierata la fanteria, capitanata da Notturno il figlio di re Sereno e da due suoi luogotenenti. Nella parte sinistra dello schieramento avversario c’erano i Cavalformiche, tra i quali c’era Fetonte: queste sono bestie grandissime, alate, simili alle nostre formiche, tranne per la grandezza, visto che arrivano ad essere grandi quasi due iugeri [circa 16mila metri quadrati ndr]: combattevano non solo quelli che li cavalcavano, ma anche le bestie stesse, con le corna. Si diceva fossero circa cinquantamila. Sulla destra erano invece disposti gli Aerotafani, anche loro circa cinquantamila, tutti arcieri, che cavalcavano tafani giganteschi. Poi c’erano gli Aeroriddanti, fanti veloci e battaglieri, che con le fionde scagliavano rane grandissime, che se uccidevano sul colpo chiunque colpissero, facendolo morire per la puzza che gli usciva della ferita. Si diceva che quei terribili proiettili erano anche intrisi di veleno di malva. Seguiva la schiera dei Torsifunghi, con armature pesanti, che combattevano da fermi, ed erano diecimila, si chiamano Torsifunghi perché pcomeer scudi usavano funghi e come lance dei gambi di asparagi Vicino a loro c’erano i Canipinchi, inviati di rinforzo dagli abitatori di Sirio: erano cinquemila, con teste di cane, che combattevano su navi alate.
Dopo che furono levati i vessilli e che ragliarono gli asini, che lassù fanno da trombe, la battaglia cominciò. L’ala sinistra dei Solani fuggì subito non aspettando di venire alle mani coi nostri bravi ippogrifi; e noi ad inseguire per ucciderli. Ma la loro destra superò la nostra sinistra, e gli aerotafani ci cacciarono indietro, fino alle nostre fanterie. Queste però tennero testa, riuscendo a ricacciarli e a metterli in fuga, soprattutto quando si accorsero che la loro ala destra era stata battuta. A quel punto la fuga fu generale: molti furono catturati, molti uccisi, e sulle nubi, che parevano tinte in rosso, come paiono quaggiù quando tramonta il sole, scorrevano fiumi di sangue, tanto che ne gocciolò anche verso la Terra […]. Tornati dal contrattacco, alzammo due trofei, uno su le tele dei ragni per la battaglia dei fanti, e l’altro sulle nuvole per quella combattuta in aria. Ma subito dopo, le vedette annunciarono che stavamo per essere assaliti dai Nubicentauri, che Fetonte aspettava da prima della battaglia. Si avvicinarono, terribili, sopra cavalli alati, erano uomini grandi quanto il colosso di Rodi dalla cinta in su, e i cavalli erano grandi come una grossa nave da carico. Non ne scrivo il numero, che sembrerebbe incredibile, ma erano infiniti, ed avevano per generale il Sagittario del Zodiaco. Come videro i loro amici sconfitti, mandano a dire a Fetonte di riattaccare, e piombarono a schiere compatte addosso ai Lunari, che nel frattempo erano disordinati e sparpagliati a uccidere nemici e saccheggiare. La carica travolse tutti, inseguendo persino il re fino alla sua città, gli uccidono gran parte di guerrieri alati, abbattono i trofei, corrono per tutto il campo di battaglia e fanno prigionieri anche me e due altri compagni. A quel punto arrivò anche Fetonte, che festeggiò la vittoria. Quello stesso giorno venimmo portati sul Sole con le mani dietro il dorso legate da un filo di ragnatela. A quel punto decisero di non tentare di espugnare la città, ma di ritirarsi e costruire un muro tra loro e la Luna, cosi da impedire i raggi della luce di arrivare alla Luna, che di colpo finì nella più completa oscurità. Assediato in quel modo, Endimione mandò ambasciatori a pregare di togliere quel muro e non farli vivere così nelle tenebre; promise di pagare un tributo, di mandare aiuti e di non far mai più una guerra, offrendo addirittura degli ostaggi. Fetonte radunò i suoi per due volte. La prima volta non volle sentir parlare di accordi, tanto era sdegnato. Ma il giorno dopo cambiò idea e siglarono la pace a queste condizioni. «Questi sono i patti della pace che fecero i Solani e gli alleati loro coi Lunari ed i loro alleati: che i Solani diroccheranno il muro, e non irromperanno più nella Luna; libereranno i prigionieri riscuotendo le taglie che saranno convenute; i Lunari, dal loro canto, lasceranno le altre stelle libere di governarsi autonomamente, dichiarano di non usare mai più armi contro i Solani, ma li aiuteranno e combatteranno, da alleati, se qualcuno li assalirà. Ogni anno il re dei Lunari pagherà un tributo al re dei Solani in diecimila anfore di rugiada, e saranno consegnati diecimila ostaggi; la Colonia in Espero diventerà territorio comune, e potrà andarci chiunque vorrà. Questi patti saranno scritti su una colonna d’elettro piantata nell’aria ai confini dei due regni. Lì giurarono, per i Solani l’Infocato, l’Accalorato, l’Infiammato, e, per i Lunari, il Notturno, il Mensuale, il Rilucente.
(Testo basato sulla traduzione del 1862 di Luigi Settembrini, riadattamento di Andrea Coccia)