L’intrattenimento privato di David Foster Wallace

L’intrattenimento privato di David Foster Wallace

In uno dei due eccessi d’ira misurata che segnano gli apici delle curve catartiche del film The End of The Tour — diretto da James Ponsoldt e tratto da Come diventare se stessi, di David Lipsky, in Italia per minimum fax, 2010, tradotto da Martina Testa — il David Foster Wallace interpretato da Jason Segel sbotta in faccia all’unica domanda diretta che il Lipsky/Jesse Eisenberg gli abbia fatto: «È vero quello che si dice del tuo passato da eroinomane?». «L’unica cosa da cui sono mai stato dipendente è la televisione», risponde DFW in una specie di borbottio contrito. La classica protesta trattenuta alla base della gola, propria degli insicuri e dei teneri di cuore quando vengono messi con le spalle al muro. Non è così vero: ci sono anche le bibite gassate, la solitudine, i dolci e, presumibilmente, le donne — o per o meno l’idea delle donne. Ci sono una serie di segnali marcati di come il DFW di Lipsky deve essere per fare effetto: un debole, e non soltanto a causa della televisione. Ma la scarsa efficacia del film non mette bene a fuoco la figura dibattuta tanto in vita quanto assolta in morte e certo non sta agli spettatori farlo. Sia quello che sia, sia lo scrittore che più vi piace vederci: egotista o generosamente aperto, eccessivamente presuntuoso o nostalgico.

Il tema della dipendenza dalla televisione, o dalla serialità, serpeggia per tutta la pellicola. Ai esplicita e poi torna a nascondersi dietro un pugno di ovvietà e un pacco da sei di Pepsi, ma non è qualcosa a cui non eravamo preparati. Per tutta la sua vita e la sua carriera, DFW ha giocato con le sue ossessioni e si è divertito a titillare quelle degli altri. Mascherandole da ricerca, condendole con dipendenze ben più importanti e apparentemente meno reali — le stesse che a suo tempo hanno insospettito Lipsky e alimentato le malelingue, quelle droghe così ben approfondite in Infinite Jest da non poter non essere associate a un problema, che l’autore da parte sua ha sempre negato — dando una forma all’intrattenimento nevrotico che oggi ci circonda e che, verso i primi anni Duemila, è stato uno dei primi ad isolare come fenomeno. «I romanzieri, quando non scrivono, diventano troppo autocoscienti, anche per gli standard americani», scriveva nel saggio del 1993 E Pluribus Unam: Television and Science Fiction. E quell’autocoscienza è la cosa che lo ha sempre fregato, quando ha dovuto fare i conti con la sua solitudine. È probabile che la serialità compulsiva, che poi si è trasformata, smussando gli spigoli e abbracciando uno spettro sempre più ampio di personalità fino ad assumere i contorni ben più rassicuranti del cosiddetto binge watching, fosse la risposta di DFW alla personalità invadente con la quale si trovava a dover fare i conti quando non poteva rovesciarla su carta. E ci ha provato, a garantirle uno sfogo costante. Dio sa se ci ha provato.

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Il Segel/DFW che sfoglia la guida dei programmi saltellando sul divano come un bambino impaziente in eccesso di zuccheri da troppa Coca-Cola è l’esatto opposto dell’essere umano raffazzonato e sarcastico, a suo modo abbastanza affascinante dell’attirare a sé fan disposte a tutto e in grado di riempire più di mille pagine di osservazioni e previsioni di un futuro abbastanza plausibile da realizzarsi davvero. È l’opposto anche del fintamente ed esageratamente iroso scrittore eremita, ballerino balzellante nel seminterrato di una chiesa battista e uomo non perfettamente formato che se la prende con Lipsky — tanto nel libro, quanto nel film — per avere cercato di rubargli la scena. È un insicuro. Come tutti siamo, siamo stati o saremo, prima o poi. E questo lo avvicina a chi lo ha sempre odiato, quanto a chi non riesce a scorgerne gli evidenti limiti, persi nell’impossibilità di definirne i contorni.

«La tv comincerà a causare dipendenza una volta varcata una soglia di consumo esagerato, ma lo stesso si può dire del Whiskey»

Il DFW di Ponsoldt, pur mancando sotto molti aspetti di attinenza con quella che doveva essere la realtà umana, coglie alla perfezione la frenesia per le piccole cose che attanagliava lo scrittore, fornendogli l’interesse esageratamente spiccato e la tendenza all’esternazione che ne avrebbero caratterizzato la produttività, ma anche l’inconstanza e la difficoltà di concentrazione propria di chi ancora non ha trovato la propria posizione nella letteratura. «Magnum P.I. Se la sta vedendo brutta», si giustifica Segel stropicciandosi gli occhi dopo una notte insonne a esplorare il palinsesto della televisione di un albergo. «I prossimi ribelli letterari di questo Paese potrebbero benissimo emergere da un gruppo di pazzoidi, abbastanza coraggiosi da prendere le distanze dall’ironia e abbandonarsi alla dipendenza», scriveva il vero DFW in E Pluribus Unam, fissando tanto la propria condizione, quanto quella delle generazioni a venire: incastrate tra la necessità assoluta di Netflix, la sovrapproduzione e la mancanza di criticità intesa come motore della selezione. Alimentate da un’ipersensibilità orientata su qualsiasi cosa — tutto diventa adorabile o deprecabile, allo stesso modo e con la stessa intensità — che è né più né meno il modo di non saper più scegliere tra il bene e il male televisivo, per abbandonarsi a un’unica pulsione. Quella di continuare a guardare, di finire le stagioni, di completare le serie e di non arrivare mai a sentirsi appagati.

DFW non riusciva a capire di cosa aveva bisogno, quando allontanava da sé l’apparecchio televisivo per non essere costretto a notti in bianco dietro alle peripezie di un giovane Tom Selleck, e si aggirava alla ricerca di qualcosa che riempisse un vuoto indefinito, infinito. «La tv comincerà a causare dipendenza una volta che si sarà varcata una soglia di consumo esagerato, ma lo stesso si può dire del Whiskey», scriveva. Noi lo sappiamo, e ci aggiriamo alla ricerca della serie perfetta, completa e allo stesso tempo infinita. Perché non si debba mai andare incontro alla malaugurata quanto terrificante ipotesi di un nuovo Season Finale.

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