La conquista, in rapida successione, della città di Palmira in Siria e di Ramadi in Iraq da parte dello Stato Islamico ha destato grande preoccupazione nelle opinioni pubbliche occidentali e non solo. Il timore di un’avanzata inarrestabile degli uomini in nero del Califfato, la paura per i civili e per i meravigliosi resti archeologici di Palmira, lo scoraggiamento per lo scarso impatto di mesi di bombardamenti da parte della coalizione anti-Isis guidata dagli Stati Uniti hanno ingigantito il senso di emergenza creato dalle notizie. Le vittorie del Califfato sono tuttavia oscillazioni di un pendolo che tanto viene spinto da una parte quanto ritorna dall’altra.
Nello scenario siro-iracheno si scarica con la massima violenza lo scontro settario tra sunniti e sciiti, usato come copertura ideologica della contesa per l’egemonia regionale
Proprio in queste ore è in corso la controffensiva su Ramadi, capitale della provincia sunnita di Anbar, ad opera dell’esercito iracheno supportato da milizie sciite e tribù sunnite dell’area. I jihadisti sarebbero accerchiati e martellati da un pesante bombardamento aereo. Salvo sorprese, la città dovrebbe cadere al massimo nei prossimi giorni. Più complicata la situazione in Siria, dove – nonostante i proclami – l’esercito lealista non ha ancora cominciato le operazioni per la riconquista di Palmira e, forse, non sono nemmeno all’orizzonte.
Gli esperti militari sottolineano come, per la natura del terreno tra Siria e Iraq – piatto, desertico e dove è molto difficile fortificarsi – da un punto di vista tattico il succedersi di offensive e controffensive sia abbastanza fisiologico. Il quadro strategico tuttavia non viene alterato – ad ora almeno – dall’esito di singole battaglie e dalle sopracitate oscillazioni del pendolo: nello scenario siro-iracheno si scarica con la massima violenza lo scontro settario tra sunniti e sciiti, usato come copertura ideologica della contesa per l’egemonia regionale tra Arabia Saudita e Iran. Finché proseguirà questa lotta, la situazione sul campo non cambierà in modo determinante e, nelle sue pieghe, continuerà a prosperare lo Stato Islamico. Nella fase attuale, secondo alcuni analisti, l’Isis starebbe ricevendo addirittura aiuti diretti da parte delle monarchie del Golfo in funzione anti-sciita, e questo spiegherebbe in parte anche la resistenza in Iraq agli sforzi della coalizione internazionale.
In Siria le recenti vittorie del fronte ribelle nascono soprattutto dall’aggregazione di varie sigle islamiste – tra cui l’affiliata di Al Qaeda, Jabhat al Nusra – in un’unica coalizione: l’Esercito della Conquista (Jaish al-Fatah). Questa è nata grazie al coordinamento tra i vari sponsor delle fazioni ribelli: Arabia Saudita, Turchia e Qatar. I gruppi che prima si combattevano tra di loro hanno fatto fronte unito contro Assad, il dittatore siriano, e lo stanno costringendo sulle difensive in varie aree del Paese. Questo sforzo diplomatico – perché di sforzo si tratta per i sauditi, che accettano di sostenere una coalizione in cui sono presenti i Fratelli Musulmani, loro storici nemici – nasce dall’esigenza comune di contrastare l’ascesa dell’Iran. Teheran è infatti in una fase di espansione sia a livello diplomatico – grazie all’accordo sul nucleare che dovrebbe essere in direttura d’arrivo – sia a livello geopolitico, con la “conquista de facto” dell’Iraq, l’influenza in Yemen, il riavvicinamento con Hamas e, in generale, in virtù del proprio ruolo di “baluardo anti-Isis” (lo Stato Islamico è sunnita, mentre gli Ayatollah iraniani sono capofila dell’asse sciita).
Nella fase attuale, secondo alcuni analisti, l’Isis starebbe ricevendo addirittura aiuti diretti da parte delle monarchie del Golfo
Costretto sulle difensive in Siria, l’Iran non sembra comunque intenzionato ad abbandonare l’alleato Assad e, secondo alcuni analisti, l’arretramento di fronte ai ribelli e al Califfato da alcune regioni periferiche risponde a una strategia precisa. Avendo meno uomini a disposizione – l’esercito regolare siriano ha visto dimezzati i propri effettivi in tre anni di guerra civile – conviene concentrare le difese intorno alla capitale Damasco, ai porti deella costa e alle aree abitate dalla minoranza alawita (di cui Assad è esponente). Questo consente una miglior difesa, facilita il supporto di Hezbollah – la milizia sciita libanese diretta emanazione dell’Iran – e ha anche risvolti propagandistici.
Spaventare le diplomazie e le opinioni pubbliche di tutto il mondo con l’avanzata dell’Isis è infatti un sistema rodato per guadagnare consenso a livello internazionale e per mettere all’angolo i sostenitori dei ribelli (Sauditi, Turchia e Qatar) di fronte ai loro alleati (Stati Uniti specialmente). Non è un caso dunque che le ultime operazioni del regime di Assad si siano concentrate nella zona di Aleppo in mano ai ribelli siriani non legati allo Stato Islamico, e non su Palmira dove è arrivato il Califfato (o sulla provincia di Idlib, caduta definitivamente in mano ad Al Nusra).
A dispetto del clamore mediatico di singole vittorie o sconfitte del Califfato la situazione non è dunque, secondo gli esperti, a un punto di svolta. L’Iran e l’Arabia Saudita continueranno le loro proxy war in tutto il Medio Oriente – e specialmente nello scenario siro-iracheno – fino a che non emergerà un vincitore dallo scontro. Solo a quel punto sarà possibile sedersi a un tavolo delle trattative per decidere come spartirsi le sfere di influenza sulla regione. Ma ad oggi ci sono ancora troppe risorse – economiche, belliche ed umane – che i contendenti possono gettare sul piatto. Nel breve periodo le speranze di pace sono al lumicino.