Un posto dove non andare: letteratura dell’obesità

Un posto dove non andare: letteratura dell’obesità

Il protagonista di un romanzo di Michael Kimball del 2012, Big Ray, pesa più di duecento chili ed esistono poche poltrone sulle quali possa sedersi comodamente. Di solito siede per terra. «L’unico modo in cui Ray riusciva a tirarsi piedi», scrive il figlio — voce narrante del romanzo — dopo la sua morte. «Era appoggiandosi a qualcosa. Qualcosa che potesse trascinare o spingere avanti a sé — una sedia, una porta o qualche altro mobile. Rotolava di lato e si metteva in ginocchio, aggrappandosi a quello che aveva intorno e sollevando la parte superiore del corpo. Poi metteva un piede a terra, seguito dall’altro. Una volta che era riuscito a portare le gambe al di sotto della pancia, poteva faticosamente alzarsi». Non esistono, invece, poltrone capaci di contenere Nero Wolfe, leggendario investigatore privato nato nel 1934 dalla fantasia di Rex Stout e protagonista di un gran numero di romanzi e racconti. Ha una sedia, dietro alla scrivania nella brownstone che non lascia quasi mai, fatta su misura. Archie Goodwin, suo assistente e amico, lo descrive in tutta la sua strabordante perspicacia e ingombrante acume: «Un pachiderma la cui genialità è pari solamente all’appetito e alla pigrizia». Prima di Wolfe c’erano stati Pantagruel e Gargantua, di Rebelais, Falstaff, di Shakespeare, e pochi altri. Dopo di lui i personaggi obesi nella letteratura si contano sulle dita di una mano, in aperta contraddizione con la realtà dei fatti.

Nel 1995 nel mondo vivevano duecento milioni di obesi, nel 2008 il numero è aumentato a cinquecento milioni.

Nel 2012 il sessantotto percento degli americani era sovrappeso, di questo numero — già di per sé allarmante — gli obesi superavano il trenta percento. Le cose non sono migliorate molto, nemmeno di fronte a un cambiamento importante delle abitudini alimentari, che negli ultimi anni ha riempito le città come New York, Los Angeles e San Francisco di ristoranti e supermercati specializzati in quello che è definito organic food. Qualcosa di simile al concetto di “biologico” per gli italiani, ma ben più invadente e sovversivo per una cultura alimentare che fino a qualche anno fa era basata quasi esclusivamente sulle dimensioni dei piatti, più che sulla loro provenienza, e sull’abbondanza di condimenti, più che sulla loro varietà. Gli americani mangiano meglio, ma non dappertutto e a tutti i livelli della società. L’ organic costa ancora molto e per molti è inarrivabile. Chi conosce il Soul Food — la cucina di ispirazione sudista e tradizione povera, consumata per lo più dalle famiglie dei quartieri meno fortunati — sa di cosa si tratta: fritto, fritto, fritto. Ma anche poco costoso e veloce da preparare. Spesso, a dirla tutta, reperibile già pronto. Nel 1995 nel mondo vivevano duecento milioni di obesi, nel 2008 il numero è aumentato a cinquecento milioni. Un tasso di crescita abbastanza ripido da far dichiarare all’Organizzazione Mondiale della Sanità lo stato di epidemia, ma non abbastanza imponente da cambiare la visione della realtà ai romanzieri americani.

MESSAGGIO PROMOZIONALE

Nel 1926, nel saggio On Being Ill, Virginia Woolf si domandava come mai, sebbene molto diffusa e argomento di grande preoccupazione per la società di allora, la malattia comparisse poco nella fiction. Lo stesso ci si potrebbe chiedere oggi per quanto riguarda il sovrappeso, non tanto perché le condizioni mediche legate all’obesità rappresentano alcune delle cause di morte più frequenti negli adulti, quanto perché sia la malattia che le disfunzioni alimentari sono esperienze fisiche, parte della natura umana. «Gli scrittori fanno del loro meglio per mantenere la loro visione del mondo legata al ragionamento», scriveva Woolf. «Come se il corpo fosse una cortina di vetro attraverso la quale l’anima può osservare l’esterno e, fatta eccezione per una o due passioni fondamentali, come l’invidia o il desiderio, il resto del fisico è nullo, inesistente». La descrizione delle esperienze fisiche, insomma, è difficile nella sua interezza. Quasi impossibile. La condizione “pachidermica” di Nero Wolfe, passa dalle descrizioni di Stout soltanto per mezzo dell’ambiente che lo circonda: la sedia su misura, l’ascensore cigolante, le quantità mastodontiche di cibo e birra ingeriti. Mai per le sue sensazioni fisiche. Mai un respiro affannato, mai il peso dei passi, mai la difficoltà di spostamento. «Per esprimere lo stato del corpo», continua Woolf. «Non occorrerebbe soltanto una nuova lingua, ma una nuova gerarchia delle passioni».

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Nella letteratura contemporanea, il sovrappeso si mescola indissolubilmente a un profondo stato di malinconia, tristezza, malessere psichico che finisce per impregnare i romanzi più ancora della condizione fisica, già di per sé prepotente. Arthur Opp è un ex insegnante di quasi sessant’anni, protagonista di Il peso, di Liz Moore — uscito in Italia nel 2012 per Neri Pozza, tradotto da Ada Arduini, e ripubblicato nel 2014 da Beat — ed è enormemente grasso. Non lascia mai il pianterreno della casa dove abita, non ricorda esattamente cosa ci sia sopra di lui e fa fatica a mettere assieme le sensazioni dello stare all’aperto. Ordina tutto sul Web e mangia in maniera compulsiva. Non ha nessuno, e la sua solitudine lo costringe a soffocare la tristezza con una forma di soddisfazione immediata. Quando si nutre si sente quasi felice. Lo stesso si può dire di Precious, sedicenne della Harlem degli anni Ottanta, che popola il premiatissimo Push di Sapphire — tradotto da Massimo Bocchiola per Rizzoli nel 1996 — da cui è poi stato tratto il film che ha procurato a Gabourey Sidibe il premio Oscar nel 2010. I protagonisti di Push e Il peso condividono la stessa condizione di umiliazione e estraniamento che li porterà a reagire al mondo esterno in maniera feroce, ma che intrappola milioni di persone ogni giorno in una spirale di felicità fittizia, filtrata dalla sensazione di appagamento che solo le grandi dipendenze sono in grado di regalare. «Non capite niente, il mio vuoto è più grasso del vostro!», grida l’attore pioniere della comicità muta Roscoe “Fatty” Arbuckle attraverso il suo biografo Jerry Stahl in Io, Ciccione — Mondadori, 2008, tradotto da Fabio Zucchella.

La disfunzione alimentare nei romanzi americani è affidata a pochi esempi, quasi tutti deprecabili.

La disfunzione alimentare nei romanzi americani è affidata a pochi esempi, quasi tutti deprecabili. Come se la risposta a un problema reale dovesse essere la sua soppressione nella fantasia. L’obesità — ma allo stesso modo l’anoressia — vengono relegate nel buio di una stanza secondaria, da dove difficilmente usciranno e resteranno a fare da contorno alla vicenda centrale, più facilmente comprensibile per l’emotività dei lettori. Quella del cibo è una contro-ossessione, che in letteratura non sembra avere conseguenze reali. «Avrebbe voluto prendere il suo MacRib e farlo a pezzi, gettarlo lontano da sé. Avrebbe voluto portarlo in un angolo di una foresta e dilaniarlo. Niente da fare, lo avrebbe mangiato», per citare Jami Attenberg nella descrizione della capostipite bulimica della famiglia Middlestein — dal romanzo I Middlestein, in Italia per Giuntina, 2014, tradotto da Rosanella Volponi — alle prese con la sua coscienza più profonda e con un panino al maiale.

Forse non c’è veramente bisogno di includere l’obesità e il sovrappeso nella narrativa, come non c’è veramente bisogno di prendere in considerazione la realtà nella sua interezza, dolorosa e imbarazzante. Ma la letteratura è anche una testimonianza dei tempi e, in questo campo, dovrà presto rendersi conto che i tempi sono quantomai voraci.

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