La legge regionale parla chiaro: «L’erogazione dell’assegno vitalizio è sospesa per il periodo nel quale il beneficiario ricopre incarichi remunerati presso enti o società della pubblica amministrazione, fatta salva la rinuncia alla remunerazione derivante dall’incarico». In altre parole, se un ex consigliere regionale che già beneficia di assegno vitalizio riceve un incarico pubblico, nel periodo in cui manterrà quell’incarico non godrà dello stesso vitalizio. Una norma più che condivisibile. Specie se teniamo conto che parliamo della legge regionale che prevede interventi «per la riduzione dei costi della politica, il contenimento della spesa pubblica e la tutela delle finanze regionali». E che modifica soprattutto la normativa sull’assegno vitalizio, riducendolo anche con forza retroattiva. Nulla di sbagliato, dunque. Nessuno oserà levare grida di polemica. Specie se – facciamo caso – l’ex consigliere in questione, cui non si consente il cumulo di benefici (tra vitalizio e stipendio), è stato nominato difensore regionale. In pratica, parliamo del garante dei contribuenti. Vogliamo davvero credere che il garante dei contribuenti voglia contestare una norma, di fatto andando contro l’interesse degli stessi contribuenti, trattandosi di soldi pubblici?
Non vorremmo, ma dobbiamo, e siamo in Lombardia. E il garante di cui parliamo è Donato Giordano. Uno che la politica, la mastica da tempo. Ex vicesindaco di Bresso, ex consigliere regionale, ex assessore regionale. Un passato socialista, prima di approdare in Forza Italia. Per la sua esperienza al Pirellone Giordano gode di un vitalizio di circa 40 mila euro annui, cui si aggiungono i 100 mila euro di stipendio che riceve annualmente in qualità di difensore regionale, nomina che ricopre da quando è cominciata la nuova legislatura con Roberto Maroni. Dovrebbero aggiungersi, è però il caso di dire. Perché, come abbiamo visto, la legge regionale (la numero 25 del primo ottobre 2014) vieta il cumulo di vitalizio e stipendio pubblico.
Vogliamo davvero credere che il garante dei contribuenti voglia contestare una norma, di fatto andando contro l’interesse degli stessi contribuenti, trattandosi di soldi pubblici? Non vorremmo, ma dobbiamo
Giordano, però, è uno combattivo: proprio non vorrebbe rinunciare ai 140 mila euro complessivi che gli spetterebbero. Non si arrende e decide di presentare ricorso (siamo a febbraio 2015), scomodando addirittura la Corte dei conti che si è pronunciata proprio pochi giorni fa (sentenza depositata il 15 giugno). Il giudizio non ammette repliche: il ricorso è respinto. Spiace per Giordano, ma finché sarà garante, niente vitalizio per lui.
Secondo l’ex consigliere – che aveva chiesto alla Corte «il riconoscimento del proprio diritto alla percezione dell’assegno vitalizio nella qualità di ex Consigliere regionale ed attuale Difensore regionale» – la norma regionale sarebbe illegittima per due ragioni. Innanzitutto perché, secondo Giordano, «la carica istituzionale e statutaria di Difensore Regionale non sembra possa farsi rientrare fra gli incarichi remunerati presso enti o società della pubblica amministrazione di cui parla la […] norma in generale». Ma, cosa ancora più importante, Giordano evidenzia nel suo ricorso «l’impossibilità di applicare retroattivamente la norma regionale». Che, dunque, potrebbe applicarsi solo «per gli incarichi conferiti in data successiva all’entrata in vigore della norma stessa».
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Tesi interessanti, le sue. Ma sbugiardate dalla Corte e dal giudice unico delle pensioni, dottor Eugenio Madeo. Infatti, nonostante «la pur suggestiva ricostruzione giuridica avanzata dal ricorrente» (così la chiama Madeo stesso), deve rilevarsi – scrive il giudice – che pur essendo un “organo di nomina elettiva”, quella del difensore regionale è in ogni caso una nomina attribuita dal consiglio regionale. Tanto che, osserva Madeo, «tale carica risulta altresì compresa nel registro regionale degli incarichi».
SPERANZE SVANITE PER GLI ALTRI EX CONSIGLIERI?
Ma è soprattutto sulla seconda questione – quella della retroattività – che potrebbe aprirsi uno scenario interessante. Scrive la Corte che, nonostante il principio della irretroattività delle leggi costituisca «un fondamentale valore di civiltà e principio generale dell’ordinamento», non è stato elevato a dignità costituzionale e, dunque, «può in alcuni casi essere derogato». Quali casi? Lo si legge in diverse sentenze della Corte costituzionale ricordate nel dispositivo della Corte dei Conti: a condizione che «la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti». Insomma, è possibile approvare una norma con valore retroattivo a patto che «tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale». Ma c’è di più. Come stabilito nella sentenza n. 446 del 2002, «in materia previdenziale […] deve tenersi anche conto del principio […] secondo cui il legislatore può – al fine di salvaguardare equilibri di bilancio e contenere la spesa previdenziale – ridurre trattamenti pensionistici già in atto».
Una sentenza, questa, che potrebbe far svanire le speranze dei 68 ex consiglieri della Regione Lombardia in attesa del pronunciamento del Tar, dopo la presentazione del loro esposto, che fa leva proprio sull’incostituzionalità – a loro dire – della retroattività della norma
E ancora. Andando a ritroso, fa scuola la sentenza del 1996 in cui si legge che non si esclude affatto «la possibilità di un intervento legislativo che, per inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica, riduca in maniera definitiva un trattamento pensionistico», con la conseguenza che «il diritto ad una pensione legittimamente attribuita […] ben può subire gli effetti di discipline più restrittive introdotte non irragionevolmente da leggi sopravvenute». Ecco perché, conclude Madeo, «non risulta in alcun modo irrazionale, anzi concretamente virtuosa stante l’attuale situazione della finanza pubblica, la ratio della legge regionale in questione».
La retroattività della legge è più che legittima. Una sentenza, questa, che potrebbe allora far svanire le speranze anche dei 68 ex consiglieri della Regione Lombardia che sono in attesa del pronunciamento del Tar, dopo la presentazione del loro esposto, che fa leva proprio sull’incostituzionalità – a loro dire – della retroattività della norma. Si va dall’ex leader sessantottino e di Democrazia proletaria Mario Capanna al leghista Alessandro Patelli, passato alla storia come un “pirla” (così si definì) per il suo coinvolgimento in Tangentopoli. Dall’ex comunista (poi Forza Italia) Giampietro Borghini all’ex assessore Antonio Simone, finito in carcere per i fondi neri della Maugeri. Tutti eletti che, dopo anche solo una legislatura (o meno), al compimento dei 60 anni d’età, si sono portati a casa un vitalizio medio da 2.600 euro. Chissà, magari potrebbero rivolgersi al difensore regionale Donato Giordano. Potrebbe dar loro ascolto.