Il minaccioso fiume di taxi che intasa le strade, da Nord a Sud e viceversa. L’innata scortesia dei suoi abitanti. Il fumo che sale dai tombini. I bagel, il cheesecake, gli hot dog, il pastrami e la pizza unta. I predicatori solitari, gli ebrei Haredim e Hassidim, gli Hare Krishna e tutti i pazzi che parlano da soli in metropolitana. La metropolitana, naturalmente. Le brownstone di Brooklyn Heights e le scale antincendio di Hell’s Kitchen. Lo Yankee Stadium. L’idea del Bronx e quella più sfocata di Harlem. I camion delle consegne, le panchine di Central Park, i topi sulle rotaie e quelli vicino ai cassonetti, gli scoiattoli di Prospect Park. Chinatown, tutti i posti dove si mangia qualcosa che come si trova qui non si trova da nessun’altra parte. I ponti, l’odio verso il New Jersey, la neve d’inverno e la canicola di luglio, il mese di ottobre, Natale sulla Quinta Avenue, i ricchi del Village, i poveri che dormono a Grand Central. I pompieri e i poliziotti. Queste immagini, prese da sole e fuori contesto, proiettate su uno sfondo completamente bianco, sono comunque in grado di restituire l’idea di New York a chi non ci è mai stato. Ma c’è una cosa che più di tutte isola il concetto e lo rende evidente a un livello superiore, inconscio, nevralgico: Steve Buscemi.
Buscemi sembra fatto per perdersi tra la folla, per infilarsi in una fessura non più larga di venti centimetri e rimanere lì finché la situazione non si è stabilizzata. Sembra modellato per abitare il centro esatto del fermento mondiale senza rimanerne coinvolto. È un osservatore naturale, un essere umano che vive bene in disparte, ma allo stesso tempo ha la tendenza a trovarsi dappertutto. È l’avventore che cerca di farsi piccolo mentre al tavolo accanto infuria una litigata. Costantemente sullo sfondo. Come ognuna delle cose elencate qui sopra, una volta che si comincia a conoscere New York.
Un socialista inconscio, che non esercita un’ideologia ma il buon senso di non lasciarsi scappare nemmeno un’occasione
È nato a Brooklyn, Park Slope, una sessantina di anni fa. Suo padre lavorava nei Servizi Ambientali, era un veterano di Corea, sua madre stava alla reception di un albergo. «Sono figlio della classe operaia», ha detto all’Independent. «E non posso che descrivere i miei genitori come “brava gente”. Sono stati brava gente per tutta la vita, senza che mai, a nessuno dei due, venisse la tentazione di fare qualcosa di male». E lo hanno allevato per diventare una brava persona. Quel genere di brava persona che si incontra passeggiando per i quartieri operai, dove gli abitanti lavorano con le mani e dopo una lunga giornata di sudore e sforzi fisici si infilano in un bar pieno di gente come loro. Oppure tornano a casa e passano la serata sui gradini o affacciati alla finestra. Forse è questo che ha trasformato Buscemi in quello che è, che gli ha dato quello sguardo inconfondibile e l’espressione di chi è sempre sul punto di fare una battuta pungente, ma raramente si lascia andare: l’abitudine a osservare a lungo, prima di intervenire. «Sono cresciuto con tre fratelli in un appartamento con una sola camera da letto. In situazioni del genere, impari ad aspettare il tuo turno».
Le brave persone sanno stare al loro posto. Nelle centonove pellicole in cui è comparso — a cui vanno sommate decine di partecipazioni televisive dal 1983 a oggi, cammeo e ruoli non accreditati — Buscemi non ha mai dato l’idea di trovarsi fuori parte. Forse perché tutte le parti gli erano tagliate addosso, seguivano il contorno di una figura abbastanza snella da poter essere piazzata ovunque senza che desse fastidio, ma mai insignificante. È stato il re dell’indie prima che si chiamasse così, ai tempi in cui Bill Murray era ancora alle prese con quanto restava del Saturday Night Live. È il prototipo dell’attore democratico, che non rifiuta niente e non lascia mai cadere un’offerta. Un socialista inconscio, che non esercita un’ideologia ma il buon senso di non lasciarsi scappare nemmeno un’occasione.
Il suo ingresso nel cinema — nel 1985 con The Way It Is di Eric Mitchell, per la casa di produzione underground No Wave, cui hanno fatto seguito Parting Glances, nel 1986, Slaves of New York, nel 1988 e Tales from the Darkside, nel 1990 — è un processo graduale, quasi in sordina, che ben si adatta alla sensazione di tranquillità che Buscemi infonde al suo intorno. È un uomo paziente, non c’è che dire. Col tempo ha messo a punto una recitazione che prendesse in considerazione ogni singolo particolare della sua vita e lo sfogasse sulla scena e con l’età i particolari sono aumentati. Guardare oggi un film di Buscemi, significa prendere atto della sua esistenza bonaria, mite, rassicurante, e del suo passato, tutto assieme.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Dopo il liceo ed essersi trasferito a Manhattan, ha deciso di fare uno sforzo ulteriore per incastrarsi nella trama della città più a fondo, diventare anche lui un particolare nel panorama. Per cinque anni, tra il 1980 e il 1985, è stato un vigile del fuoco del FDNY, 55ma autopompa di Little Italy. Dopo l’Undici Settembre è tornato a servire, in turni da dodici ore, dentro e fuori da quanto rimaneva delle torri. Nel 2011 ha affiancato le proteste contro il sindaco Bloomberg, che voleva chiudere nove dipartimenti dei vigili del fuoco. Anche questo è andato a finire da qualche parte nella sua cinematografia: nel 2014 ha realizzato un documentario intitolato A Good Job: Stories of FDNY. Le brave persone non sono capaci di stare a guardare.
Anche quando ride, pare che gli si apra una crepa in faccia
Nei primi anni Novanta, Buscemi ha trovato chi avrebbe trasformato il suo sguardo smarrito e pietrificato in una tristezza atavica — che anche quando ride, pare che gli si apra una crepa in faccia — in un marchio riconoscibile. Crocevia della morte, del 1990, attribuito a Joel Coen ma in realtà diretto con Ethan, segna l’ingresso nel cerchio più alto del cinema indipendente. Per lui è stato come tornare a casa dopo un turno. Quello con i fratelli Coen è probabilmente il sodalizio più importante e evidente della carriera di Buscemi: nel 1991 è venuto Barton Fink, nel 1994 Mister Hula Hoop e nel 1996 la meravigliosa interpretazione in Fargo. Seguono Il grande Lebowski, del 1998, e Paris, je t’aime, del 2006. Il personaggio Buscemi sembra esistere in funzione della propria nevrosi, è sempre pronto a una crisi di nervi imminente ma che — fanno fede i film dei Coen — non arriverà mai. Non è il tipo di nevrotico alla Woody Allen, che fa vanto delle sue peculiarità e le usa per lanciarsi in avventure strampalate, ma dà l’idea di provare continuamente e disperatamente a reprimerle, rendendole più evidenti. È una brava persona, con qualche problema di adattamento alla realtà.
«Sono venuto a conoscenza della sua esistenza quando l’ho visto nella parte del giovane sieropositivo in Parting Glances, di Bill Sherwood. Ero impressionato, ma non pensavo che lo avrei visto recitare di nuovo. Non ero nemmeno sicuro che stesse recitando, a dire la verità», ha dichiarato Quentin Tarantino nel 1994. La collaborazione di Buscemi con Tarantino è tanto importante quanto utile ad accrescere il mito dell’attore-feticcio. I film, in realtà sono solo due: Le iene, del 1991, che ha contribuito a scolpire i nomi di entrambi nel culto, e Pulp Fiction, del 1994 — e, in questo caso, Buscemi bisogna andarselo a cercare. Però, la durezza di Mr. Pink e la versatilità di accettare parti minori, l’impossibilità di stare lontano dalla camera da presa assieme all’assenza di prepotenza catalizzatrice, hanno fatto di Buscemi un animale raro. Un attore completo, ancora meglio: versatile. Nella sua filmografia, impossibile da citare per intero a meno di non volerne scrivere un libro, compaiono piccole pellicole grandiose, come Big Fish, di Tim Burton (2003), minuscole pellicole non così grandiose, come Louis & Frank (1998), ma anche classici inspiegabili come Armageddon, di Michael Bay (1998), e Desperado, di Robert Rodriguez (1995), la commedia di Terry Zwigoff Ghost World (2001) — che gli è valsa numerosi premi — e piccoli gioielli della portata di Saint John of Las Vegas, di Hue Rhodes (2009) e Youth in Revolt, di Miguel Areta (2009).
La carriera di Buscemi è una storia di impegno costante per un cinema definito e maturo, ma allo stesso tempo spontaneo e lontano dalle logiche di mercato che dominano i blockbuster di Hollywood. È la speranza ideologica del panorama indipendente, avvicinata alla professionalità delle grandi produzioni. Essere tra i primi a sperimentare, senza mai usare i pochi mezzi a disposizione come una scusa. Park Bench, una serie inaugurata nel 2014 su Aol, è l’indubbia prova di quanto la mente dell’attore, produttore, sceneggiatore e regista sia ancora terreno estremamente fertile: «Mi sono detto: “Perché non filmare me stesso che chiacchiero su una panchina a Prospect Park?”», e lo ha fatto. Ogni settimana porta su una panchina di un parco cittadino un ospite, con il quale parla a ruota libera, riprendendo contemporaneamente possesso di una città che non ha mai smesso di portarsi addosso.
C’è un’ultima cosa che caratterizza New York per chi viene in visita: il Celeb Spotting, vale a dire l’arte di riconoscere le persone famose per le strade e nei locali, magari appuntandosele su un taccuino. Ecco, se mentre leggete siete in città e state sperando di scorgere Woody Allen, Scarlett Johansson o Mark Ruffalo, fate attenzione: potreste avere accanto Steve Buscemi da una ventina di minuti senza esservene accorti. Potreste averlo confuso con un elemento del paesaggio.