La letteratura italiana non è morta dopo Calvino

La letteratura italiana non è morta dopo Calvino

Domenica 23 agosto, sulle pagine de La Lettura, settimanale culturale del Corriere della Sera, è uscita un’intervista di Paolo Di Stefano al critico italiano Pier Vincenzo Mengaldo. Sotto un titolo abbastanza eloquente, “Il buio dopo Calvino”, il critico sviluppa un discorso che abbiamo già letto centinaia di volte, soprattutto — e non è un caso — a fine estate, quando le pagine culturali dei quotidiani e delle riviste sono un po’ più difficili da riempire.

A grandi linee la letteratura italiana contemporanea è in crisi nera, nerissima, brancola in un buio irrisolvibile; il romanzo italiano è morto da trent’anni; dopo i Calvino, i Volponi e i Levi i romanzieri italiani sono, quando va bene, semplici intrattenitori; la poesia è morta e sepolta da anni e la critica, dopo diversi malori, se n’è andata anche quella, sepolta dalla pubblicità, e sostituita dall’arte della marchetta che ormai riempie le pagine culturali dei quotidiani e delle riviste. Ah, anche quelle malate terminali, se non già freddi cadaveri.

Se fosse un piatto della cucina tradizionale italiana il dibattito sulla morte clinica della letteratura e della critica sarebbe una variazione dello stracotto

Questo è quello che, in buona sostanza, emerge dalle parole di Mengaldo e di altri che negli ultimi anni, come lui, hanno masticato e rimasticato lo stesso discorso funebre. Solo un paio di settimane prima di Mengaldo un altro decano della critica italiana come Franco Cordelli, sulle pagine del Fatto Quotidiano, aveva detto cose simili: la letteratura italiana è morta, gli scrittori di oggi sono “scrittori medi”, mediocri rivenditori di merce da consumare come merendine industriali, e anche il pubblico non esiste più se non quello «composto, in definitiva, dagli stessi romanzieri».

Se fosse un piatto della cucina tradizionale italiana il dibattito sulla morte clinica della letteratura e della critica sarebbe una variazione dello stracotto. Insomma, parafrasando un altro grande classico del Novecento, questa volta di Remarque, vien da dire Niente di nuovo sul fronte occidentale.

Per una sintetica storia di questa specialità si potrebbe citare di nuovo Cordelli, che aveva parlato della morte del romanzo e degli intellettuali nel 2014, sempre su La Lettura del Corsera (all’epoca era la fine di maggio, e il titolo era “La palude degli scrittori”). Oppure, ancora prima, la singolar tenzone tra Ferroni e Baricco, pubblicata sulle pagine culturali di Repubblica nel marzo del 2006, a sancire la morte della critica.

Cercando velocemente negli archivi di via Solferino degli ultimi dieci anni si riesce poi ad apprezzare il grottesco insito nella variazione sul tema. E c’è un articolo che è esemplare in questo senso: ha un titolo (ancora una volta) apocalittico e (ancora una volta) ammiccante alla vecchia Harper Lee — “Il buio della critica dopo Primo Levi e Volponi” — è uscito (ancora una volta) a fine agosto — il 24 —; è firmato (ancora una volta) da Paolo Di Stefano ed è un’intervista (ancora una volta) a Pier Vincenzo Mengaldo il quale ribatte (ancora una volta e, dieci anni prima di questa fine d’agosto) sui soliti tasti: declino, malattia e morte del sistema letterario italiano.

Ma questo discorso, che ricorre da molte voci e da molti anni, è vero? È vero che, dopo la stagione d’oro dei Calvino, dei Vittorini, dei Volponi, Levi, Pasolini e via dicendo, il sistema letterario italiano si è dissolto in un buio imbarazzante? Il dubbio viene non per la mancanza di fiducia verso i decani della critica italiana, quanto per una certa evidenza di fatti e dinamiche interessanti a cui stiamo assistendo negli ultimi anni e di cui però non troviamo riscontro nelle parole della vecchia guardia dei critici letterari.

Dando infatti un’occhiata alle classifiche nazionali e internazionali, guardando gli albi d’oro dei premi letterari e mettendo in fila gli ultimi casi esemplari che ha generato la letteratura italiana, potrebbe venire qualche dubbio sulla affidabilità del punto di vista dei Mengaldo e dei Cordelli.

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

Qualche esempio? Restando soltanto negli ultimi dodici mesi pensiamo al caso Elena Ferrante, uno dei rari, se non unici, esempi di romanzi italiani capaci di conquistare in massa il pubblico americano, una conquista tanto potente che per l’uscita dell’ultimo tassello della sua quadrilogia ci si aspettano reazioni e file à la Harry Potter. Oppure pensiamo alla persistenza in classifica, sui giornali e nelle vendite — per settimane — di libri come Muro di casse, una fiction-non-fiction sui free party di Vanni Santoni o, sul versante della fiction pura, del grande successo di Atti osceni in luogo privato, di Marco Missiroli, scrittore romagnolo che nel 2006 era stato insignito del premio Campiello Opera Prima. E ancora, per il versante premi e per restare al premio veneziano, è di appena dodici mesi fa la vittoria del romanzo Morte di un uomo felice, di Giorgio Fontana, 33 anni, il più giovane vincitore dai tempi di Bevilacqua, che lo vinse a 32 anni.

La domanda che ci facevamo prima, quindi, sorge abbastanza spontanea: quello che la vecchia guardia della critica annuncia da anni è proprio vero? A confermarci la legittimità dei dubbi è proprio Giorgio Fontana che, raggiunto al telefono da Linkiesta, si è detto annoiato da un dibattito che pare inutile e che si ripete ormai quasi invariato da anni.

«Il discorso è ricorsivo e, almeno per quanto mi riguarda, decisamente noioso», dice Fontana. «Non voglio alimentare nessuna polemica, soprattutto perché la mia reazione davanti a prese di posizione del genere è orientata verso il disinteresse e la noia piuttosto che verso la rabbia e l’indignazione».

«Ho l’impressione che ci sia un po’ di pigrizia e di scarsa curiosità della vecchia critica verso ciò che stanno producendo le nuove generazioni»

Perché ci si ostina a tirare fuori argomenti del genere?
Alla fine è una cosa che ogni generazione dice di quella successiva e, al di là delle opinioni meramente personali, ho l’impressione che ci sia un po’ di pigrizia e di scarsa curiosità della vecchia critica verso ciò che stanno producendo le nuove generazioni. Non voglio alimentare la polemica, ma la mia reazione davanti a prese di posizione del genere è orientata verso il disinteresse e la noia piuttosto che verso la rabbia e l’indignazione.

Mengaldo parla di “buio” per gli ultimi trent’anni della letteratura italiana; tu invece a che nomi pensi?
Dal punto di vista della ricerca e dell’uso della lingua italiana, per esempio, non mi sembra che manchino esempi di alto, se non di altissimo livello, a partire da Michele Mari, classe ‘55, e poi Fabio Stassi, Marco Mancassola, Paolo Cognetti, Claudia Durastanti, Marco Missiroli, questi ultimi tra l’altro nati negli anni Ottanta. O ancora, libri che affrontano con grandissima bravura dei temi per nulla semplici, come Il demone a Beslan di Andrea Tarabbia. Poi mi viene in mente anche Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, un altro grande libro degli ultimi dieci anni. Anche dal punto di vista dell’interazione tra fiction e non fiction ci sono stati lavori decisamente interessanti negli ultimi anni. Penso a libri come quelli di Giusi Marchetta, ma ce ne sono sicuramente molti che sto dimenticando, sia perché il periodo di cui parliamo mi sembra estremamente vivace, sia perché dopotutto io sono solo uno scrittore – non un critico, appunto.

E del caso Elena Ferrante cosa ne pensi?
Il caso di Elena Ferrante credo che dovrebbe farci riflettere sul mondo della critica: la quadrilogia dell’Amica geniale è il primo caso da non so quanti anni in cui il romanzo italiano riesce a spopolare nel mercato americano e qui da noi, invece di analizzare il caso e cercare di capirlo, orientiamo il dibattito sulla cosa più inutile, ovvero sulla sua identità. Così è gossip, in piena tradizione italica, direi.

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