«A Palmira è un vero disastro, ma potrebbe essere solo l’inizio»

«A Palmira è un vero disastro, ma potrebbe essere solo l’inizio»

Quando intorno alla metà del’Ottocento un viaggiatore inglese di nome Robert Wood e i suoi compagni di viaggio, inizialmente alla ricerca delle rovine di Troia, si imbatterono nelle rovine di Palmira restarono esterrefatti. Al loro ritorno in patria portarono con sé schizzi e disegni del sito, immagini tanto potenti da entrare profondamente nell’immaginazione dei loro contemporanei. Wood ci scrisse addirittura un libro, una raccolta di saggi intitolata The Ruins of Palmyra.

«È il comune e naturale destino delle città», scrisse Wood, «di vedere la propria memoria preservata più a lungo delle proprie rovine»

All’interno di uno di quei saggi, Wood scrisse una frase che, a distanza di un secolo e mezzo, colpisce più di altre : «È il comune e naturale destino delle città», scrisse Wood, «di vedere la propria memoria preservata più a lungo delle proprie rovine». Una frase che per Wood, che vide Palmira mezza sommersa dalla sabbia, era una semplice constatazione degli effetti del tempo sull’opera dell’uomo, ma che ora, alla luce di quel che sta succedendo in Siria, assume un significato decisamente lugubre.

Nelle ultime settimane, infatti, le notizie dalla Siria non parlano soltanto di morti, di attentati, di profughi in fuga e di bombardamenti contro obiettivi sensibili del Daesh, lo Stato Islamico. Parlano anche delle rovine romane di Palmira, uno dei siti archeologici romani più importanti del mondo — del calibro di Pompei e di Efeso — che dopo aver resistito per un paio di millenni alla forza del tempo, sta rischiando la distruzione ad opera dei miliziani dell’Isis, che l’hanno conquistata a maggio.

Dopo la conquista della città, sottratta alle forze fedeli a Bashar al Assad, i resti della città e romana di Palmira ha subito una vera e propria escalation di violenza da parte dell’Isis che nell’ultimo mese ha, nell’ordine, ucciso e decapitato il professor Khaled al Asaad, direttore del sito, e fatto saltare con cariche di dinamite le celle dei templi di Baal e di Balshamin.

«Si tratta delle rovine meglio conservate del sito e la loro distruzione è una perdita gravissima, per diversi motivi»

«Si tratta delle rovine meglio conservate del sito e la loro distruzione è una perdita gravissima, per diversi motivi», ha raccontato a Linkiesta Maria Teresa Grassi, professoressa dell’Università degli Studi di Milano, a capo della missione Palmira, una missione archeologica italosiriana che tra il 2008 e il novembre 2010 ha lavorato agli scavi di una casa che faceva parte di un quartiere residenziale della città ancora poco studiato, «un progetto purtroppo terminato nel novembre del 2011 a causa della guerra civile e dell’impossibilità di garantire la sicurezza della missione».

Professoressa, perché questi due templi erano così unici? Cosa avevano di particolare?
L’unicità del tempio di Baal e di quello di Balshamin si doveva prima di tutto all’ottimo stato di conservazione delle due celle, arrivate fino a noi praticamente intatte dall’antichità. Non sono molti nel mondo i templi arrivati fino a noi in quelle condizioni. Ma la loro importanza si deve anche alla loro particolarità sotto il profilo architettonico e artistico, come espressione di una “romanità orientale”, una particolarità che è tipica e unica di Palmira.

A cosa si deve la loro unicità?
Io non so quanto ne siano essi stessi consapevoli, perché non so se tra gli accoliti dell’Isis ci siano anche archeologi, però quello che hanno distrutto era un simbolo di tolleranza di Palmira, che tollerava due divinità massime di due pantheon diversi. C’erano infatti due Zeus, uno dalla cultura mediterranea proveniente dai Fenici e l’altro dalla Mesopotamia. E a Palmira convivevano, era un caso unico di convivenza pacifica di divinità, che ora è stata rasa al suolo. E grottescamente potrebbe addirittura essere una coincidenza, perché credo che sia molto difficile che chi ha messo quelle cariche esplosive ne fosse consapevole. Per noi che conosciamo la storia questa distruzione si carica di simboli e valori talmente potenti da fare anche più male di quello che forse si immaginano loro. E se possibile è ancora più orribile.

«Non possiamo escludere che molti siti siano già stati distrutti o saccheggiati. E non solo dall’Isis, che, anche in questo caso, è quello che fa più notizia»

Oltre ai due templi, che cosa c’è in pericolo a Palmira?
Il tempio di Baal e quello di Balshamin sono certamente perdite clamorose, ma purtroppo rischiano di non essere le uniche. È molto probabile che di molte altre non siamo nemmeno a conoscenza di distruzioni e saccheggi di siti meno noti, ma che sono altrettanto gravi. Questi due templi sono tra i più noti, per questo fanno notizia, ma in Siria e in tutta l’area ci sono decine di siti rilevanti. Perché la Siria, e in generale tutta l’area mediorientale che ora è in stato di guerra è in gravissimo pericolo. Non possiamo escludere che molti siti siano già stati distrutti o saccheggiati. E non solo dall’Isis, che, anche in questo caso, è quello che fa più notizia.

Per esempio?
Per esempio Apamea, un sito che le immagini satellitari ci hanno mostrato completamente distrutto da scavi clandestini e saccheggi. Qui l’Isis non c’entra, ma come dicevo prima, quando c’è una guerra queste cose succedono e sono quasi sempre opera di briganti o magari sono furti che servono per finanziare l’una o l’altra parte. E nemmeno solo in Siria, pensiamo anche all’Iraq, per esempio, o all’Afganistan. L’Isis sono soltanto gli ultimi arrivati.

«Ci sono siti risalenti al III e al II millennio avanti Cristo. Siti che sono sicuramente a rischio di distruzione e saccheggio, ma di cui non sappiamo nulla»

Che caratteristiche ha l’aera siriana dal punto di vista dei siti archeologici?
La Siria è un’area ricchissima dal punto di vista del patrimonio culturale e Palmira è solo uno tra questi. Ci sono altre realtà che riguardano non solo l’età romana, ma anche età più antiche. Ci sono siti risalenti al III e al II millennio avanti Cristo. Siti che sono sicuramente a rischio di distruzione e saccheggio, ma di cui non sappiamo nulla. I o faccio sempre il paragone con l’Italia, perché a livello di ricchezza e di densità culturale la Siria è certamente paragonabile. Se ci immaginiamo la distruzione di un monumento famoso di Roma ci immaginiamo facilmente l’impatto mediatico che questa distruzione avrebbe, farebbe di sicuro un gran rumore. Però l’archeologia romana in Italia non è soltanto a Roma, è fatta di migliaia di siti che, se venissero distrutti e saccheggiati, farebbero di sicuro meno notizia. Ma la gravità del danno culturale non credo che si possa classificare. E la mia paura è che non sia finita.

«Non ci sono moventi “culturali”, ammesso che si possa definire “culturale” un’opera di distruzione»

Crede che dietro questi gesti ci sia anche un’effettivo movente “culturale” o che siano soltanto atti dimostrativi a scopo mediatico?
No, io credo che vogliano soltanto l’attenzione mediatica. Non ci sono moventi “culturali”, ammesso che si possa definire “culturale” un’opera di distruzione. Se riguardiamo alla storia degli ultimi mesi emerge chiaramente questa cosa: i miliziani dello Stato Islamico hanno conquistato Palmira all’incirca a maggio, poi due mesi e mezzo di silenzio, poi c’è stata l’uccisione di Khaled al Asaad, poi di nuovo un calo di attenzione, poi la distruzione dei templi. Io credo che vogliano soltanto la nostra attenzione. Anche perché c’è una certa arroganza in questi gesti, come fossero uno sberleffo, come se l’Isis goda a vederci imbelli e impotenti di fronte alla distruzione. Un po’ come i bulli che si divertono a fare danni sapendo che la maestra non potrà mai picchiarli.

E cosa sappiamo della vendita di reperti sul mercato nero?
Credo che nessuno sappia con certezza quantificare il mercato, anche perché i compratori sono in buona parte occidentali. Ma è certo che succede. In Medio Oriente e non solo è sempre stato così. Gli oggetti più piccoli e trasportabili vengono venduti per fare cassa, magari opere e reperti sottratti a siti minori o a magazzini. Anche nella stessa Palmira è capitato di sicuro che qualche oggetto sia finito sul mercato nero dell’arte.

«Purtroppo ormai è tardi per intervenire, e non solo per Palmira»

Cosa possiamo fare per difendere questo patrimonio?
Purtroppo ormai è tardi, e non solo per Palmira. Sono state fatte delle proposte, ma lasciano un po’ il tempo che trovano. Qualcuno ha detto “mandiamo dei caschi blu”. Ok, d’accordo, ma poi quando l’Isis, che non credo accetti ben volentieri di sedersi a un tavolo di trattative con l’ONU, si mette a sparare cosa si fa? Proposte di questo genere sono un po’ assurde. Certamente non sono cose su cui la mia opinione è rilevante, ma mi sembra che a questo punto se non c’è un intervento armato diretto la cosa non si fermerà, né contro le cose, né contro gli uomini. Lo dico sperando di essere contraddetta e di sbagliarmi, forse è solo la reazione a questo senso di impotenza, ma ora non vedo molte alternative allo stare a guardare.

Evitare di parlarne potrebbe paradossalmente servire a qualcosa?
Non credo, anche perché come si fa a non dare una notizia del genere. Se a lei arrivano le foto del tempio distrutto, riuscirebbe a non pubblicarle? Io non credo. Come non credo che non ci sia più di tanto dello spirito da voyeur in questo nostro cercare notizie e immagini delle distruzioni. È normale. La cosa che mi rattrista è che di queste cose si parli soltanto quando vengono distrutte. Quando abbiamo iniziato il progetto Palmira, nel 2008, nessuno si era interessato. Ne parlavo ai giornalisti, spiegavo loro l’importanza dei nostri scavi, del fatto che fosse la prima missione italiana a Palmira, un progetto importante, dovevo inseguirli e quasi neppure mi rispondevano, se non per dirmi che non c’era notizia. È triste, ora invece mi chiamano tutti.

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