David Lagercrantz: «Trovo la mia libertà grazie ai limiti»

David Lagercrantz: «Trovo la mia libertà grazie ai limiti»

David Lagercrantz ha un gran sorriso stampato in faccia, quello di chi sa di aver fatto un’impresa. Tossisce anche ogni tanto, un po’ a causa di un prinicipio di influenza, un po’ per l’estenuante tour de force che lo terrà impegnato per quasi tre mesi i giro per il mondo a presentare Quello che non uccide, il seguito — attesissimo — della saga di Millennium di Stieg Larsson, edito in Italia da Marsilio.

È stato pubblicato un paio di settimane fa, in contemporanea mondiale, il quarto volume di una delle saghe poliziesche più famose e lette di sempre. Stiamo parlando di una trilogia, partorita dal genio di Stieg Larsson, capace di arrivare a vendere 80 milioni di copie in tutto il mondo. Un po’ come se l’intera popolazione tedesca, neonati inclusi, avesse sul comodino uno di quei libri.

Questo quarto volume delle avventure di Lisbeth Salander, però, non è stato il frutto della creatività del suo inventore, morto prematuramente per un infarto nel 2004. No, l’autore in questo caso è David Lagercrantz, giornalista svedese — già celebre in patria e non solo per aver scritto la biografia di Zlatan Ibrahimovic — che per mesi, in gran segreto, ha lavorato a questa impresa.

Si dice, e l’interessato conferma, che lo abbia scritto interamente su un computer privo di connessione e che mai, neppure per sbaglio, abbia mandato una sola pagina, nemmanco di appunti, via mail. Ma il motivo non è la minaccia costante dei social network — nientaffatto amati dall’autore — e neppure la sindrome da refresh dei siti di informazione.

«È stata veramente l’impresa della mia vita»

No, Lagercrantz in qualche modo aveva paura. La tensione è facilmente comprensibile: lettori di tutto il mondo fremevano per sapere qualcosa, le case editrici lo hanno comprato praticamente a scatola chiusa, gli anticipi versati alla casa editrice svedese e allo stesso Lagercrantz sono stati a sei zeri.

Ma c’è dell’altro. Perché in Quello che non uccide Lagercrantz ci ha messo un ingrediente molto accattivante e d’attualità, uno di quelli che però, allo stesso tempo, insegue anche il proprio inventore: il mondo degli hacker, un mondo che Lagercrantz ha studiato e indagato, aiutato da professionisti del settore, e che, forse proprio per questo, ha iniziato a temere. La paura più forte, ci racconta l’autore durante il suo soggiorno a Mantova, era l’orizzonte di attesa, la paura di non riuscire a farcela, di sbagliare.

«È stata veramente l’impresa della mia vita». Lo ammette, senza smettere di sorridere. «Non esagero, sul serio. È stata un’impresa. Ma lavorando a questo libro ho capito definitivamente una cosa, che come scrittore sono più bravo quando scrivo di altro che non sia me stesso, quando entro in un universo narrativo come quello creato da un altro scrittore — in questo caso Stieg Larsson — ma anche quando racconto vite che non sono la mia, come mi è capitato con Zlatan Ibrahimovic e Alan Turing».

È interessante questa dinamica, come te la spieghi?
Non lo so, ma quando invento le storie che partono dalla mia esperienza, storie che hanno le radici dentro di me, tendo al lamento, mia moglie dice che mi deprimo. Insomma, do il mio meglio quando interpreto qualcun altro. Mia sorella, che fa l’attrice — e che tra l’altro ha interpretato un ruolo nell’adattamento svedese della trilogia di Larsson — dice sempre che sono uno scrittore-attore, perché mi piace recitare una parte, entrare in qualcun altro e metterci qualcosa di mio. In questo senso lavorare a questo libro è stato perfetto per me, anche perché ho amato da subito l’universo narrativo di Millennium, ho amato da subito Lisbeth Salander.

«Quando hai un personaggio estremo come Lisbeth, avere accanto qualcuno che lo equilibra, come Blomkvist, è fondamentale»

Perché ti ha colpito così tanto? Cosa ci hai trovato di così attraente?
Suona strano a dirsi, ma Lisbeth ha molte cose in comune con gli altri personaggi di cui mi sono occupato: un genio che vive profonde difficoltà e che la nostra società porta vicina alla distruzione. Se ci pensi ha qualcosa in comune con Ibrahimovic e con Turing, ma anche con altri personaggi di cui ho scritto. Per questo ho capito che era perfetta per me, era il mio personaggio ideale. Ma anche Michael Blomkvist, che è un po’ l’uomo che avrei voluto essere, che è gentile e corretto, così come vorrei essere io, e che ha alti valori, un forte carico idealista e si appassiona quando ha tra le mani delle buone storie. Quando hai un personaggio estremo come Lisbeth, avere accanto qualcuno che lo equilibra, come Blomkvist, è fondamentale. Se in più ci metti quella dimensione che somiglia al modo russo di raccontare le storie, che entra dentro la testa dei personaggi e passa da uno all’altro. C’è il buono e il cattivo e per la mia attitudine ad essere un attore-scrittore era tutto perfetto.

Quindi, paradossalmente, la libertà dello scrittore viene potenziata dalle regole e dalle gabbie in cui si costringe?
Sì, assolutamente. Capita spesso agli scrittori di avere la sindrome della pagina bianca, quella sorta di vertigine di fronte all’abisso del foglio vuoto da riempire, inventando, estraendo da sé il materiale che poi dovrà diventare il racconto. È una sensazione pazzesca e anche un po’ paradossale, perché è come sentirsi imprigionato dall’estrema libertà. Io invece trovo la mia libertà grazie ai limiti. È una cosa che è sempre successa in realtà, se pensi alle strutture metriche della poesia classica, o ai pattern narrativi delle fiabe, o ai cliché di molta della letteratura di genere. Sono pattern, sono confini entro cui restare che in realtà ti danno la libertà di creare, una libertà che, paradossalmente, non ti dà il non avere limiti. A me succede sempre, adoro i limiti perché mi accorgo di funzionare molto meglio come scrittore quando vengo a contatto con qualcosa che mi è esterno, qualcosa che non è il parto della mia immaginazione. Il caso di Ibrahimovic è stato esemplare da questo punto di vista, mi ha messo alla prova. Pensa che quando l’editore me l’ha proposto la mia reazione fu praticamente «Ma sei impazzito? Io a scrivere di calcio? Questo debole nevrotico e piccolo intellettuale alle prese con questa sorta di macho?» Eppure fu un’idea brillante, perché seppur fossimo distantissimi come formazione e come tutto, in realtà, il nostro incontro funzionò benissimo. E sono sicuro che te lo confermerebbe anche lui.

«Adoro i limiti perché mi accorgo di funzionare molto meglio come scrittore quando vengo a contatto con qualcosa che mi è esterno»

Quando ti metti nei panni degli altri scopri qualcosa di te?
Sempre, scopro sempre qualcosa di me quando mi metto nei panni degli altri. Anche se questi panni sono l’esatto opposto di quello che sono io. Scopro i miei limiti, li supero, che poi è esattamente quel che io credo sia il significato del verbo “crescere”. Pensa al lavoro con Ibra, uno che è cresciuto in condizioni in cui doveva essere forte per emergere, ma quasi anche soltanto per sopravvivere. Io invece, al completo opposto, sono cresciuto in una famiglia intellettuale, che mi insegnava ad essere nobile e sensibile, una famiglia che paradossalmente quasi mi insegnava l’importanza di essere debole, debole nel senso nobile del termine, intendo, ma debole. Io e Ibrahimovic non potremmo essere più diversi forse, ed è proprio per questo che mettermi nei suoi panni mi ha fatto crescere.

Quali aspetti ti hanno affascinato di Lisbeth Salander?
Entrare nella testa di un personaggio come lei mi ha fatto crescere tantissimo. Ho scoperto parti di me stesso che le somigliavano e che magari tendevo a nascondere o che semplicemente non conoscevo. Ho sentito l’urgenza del desiderio di rivincita, di vendetta, che chiaramente un po’ tutti noi proviamo a piccole dosi, ma che spesso lasciamo da parte, forse che un po’ ci censuriamo. La cosa curiosa è che, e ne sono convinto, scopri più cose di te stesso quando ti immergi nei personaggi cattivi, quando ti avvicini al male, perché scopri le tue parti più grette e primitive, quelle che hai sempre censurato e che arrivi persino a negare a te stesso Se scrivo di un personaggio che è simile a me e che dice io — e che quindi nel racconto è me — faccio a immaginare quanto geloso, o quanto gretto e laido possa essere. La stessa cosa non mi succede se mi metto nei panni di un personaggio che non sono io e che non mi somiglia, è come se quella sua diversità mi facesse da schermo e mi consentisse di metterci dentro ancora più me e, di conseguenza, di superare i miei limiti, di crescere.

«Scopri più cose di te stesso quando ti immergi nei personaggi cattivi»

Come ti sei preparato per affrontare la stesura di questo romanzo?
Prima di tutto ho letto e riletto i suoi libri per capire il codice con cui funzionava, quel suo modo così peculiare di farti girare una pagina dopo l’altra. E l’ho capito, a partire da quel fattore di cui ti parlavo prima dei personaggi, quella sua complessità di trama. E ho capito anche che non mi sarebbe bastata la riproposizione dei soliti cliché tipici del giallo. Non avrebbe funzionato. Siamo entrambi giornalisti, ma veniamo da mondi diversi, e non avrei potuto scriverlo partendo soltanto da quello che mi apparteneva. Per questo ho potuto usare il mio stile, ma non il mio stile “letterario”. Quando ho scritto della vita di Alan Turing, lì sì che mi è servito il mio stile, e infatti è un libro completamente diverso. Ho provato a copiarlo senza copiarlo, perché ho capito che venivamo dalla stessa cosa, il giornalismo, ma anche che non avevamo la stessa prosa, perché venivamo da mondi molto diversi. Ho cercato di imitare il suo modo di raccontare, ma ho usato il mio stile, l’ho soltanto un po’ asciugato della parte più letteraria. E infatti mi sembra di essere ritornato alla mia prosa da giornalista, è grazie a quella esperienza che sono riuscito a imitare la sua capacità di cambiare prospettiva.

Studiando una trilogia narrativamente così complessa come quella di Stieg Larsson, cos’hai capito della narrativa in generale?
Ho scoperto e ho esplorato la complessità della trama, ma la cosa che più ho apprezzato è stata la consapevolezza che attraverso la sua scrittura Larsson riesce a passare un messaggio, ad educare, che è una cosa a cui ho sempre tentato di tendere. Qualche volta leggere un giallo è come mangiare una torta. Mentre la mangi ti piace un sacco e ti abbuffi, magari, ma poi ti lascia un po’ di mal di stomaco. Ecco, Larsson no, lui riesce a metterci sia il thrilling che qualcos’altro, perché usa insieme elementi iper reali e altri irreali , riesce a mettere insieme personaggi reali e supereroi, utilizzando anche dei cliché — il cattivo-cattivo, per esempio — e questo mi ha fatto capire che i cliché si possono usare, basta essere consapevoli. Perché non c’è niente di peggio di usare dei personaggi stereotipati pensando che non lo siano.

Come giornalista ti sei occupato per molto tempo di cronaca nera, quanto ti è servita l’esperienza del cronista nell’ideare la trama di questo libro?
Credo che tutto ciò che ho fatto nella mia vita, non solo l’aver scritto di cronaca nera, mi sia servito per scrivere questo romanzo. Quel che mi è servito di quella esperienza è l’attenzione per i dettagli, perché è proprio partendo dai dettagli che riesci a costruire l’effetto thrilling. L’orrore, nei romanzi, si nasconde nei dettagli. Se un romanzo fosse un film ti direi che dipende da come usi i primissimi piani, lo zoom. Perché è sottolineando alcuni dettagli, quelli che poi saranno funzionali per lo sviluppo della trama.
Se ora, per esempio, dovessimo morire tutti per un’esplosione, nella vita reale sarebbe solo un’esplosione che ci uccide, in un romanzo invece sarebbe stata costruita attraverso dei dettagli che, anche se apparentemente inutili, avrebbero fatto salire la tensione: il modo in cui mi tolgo gli occhiali, lo sguardo che indirizzo alla mia adorata traduttrice e quello che getto fuori dalla finestra, godendomi gli ultimi sprazzi di estate, tutte cose assolutamente normali, ma che vengono potenziate e rese decisive dal salire della tensione e poi dal culmine, dall’esplosione. È questo che differenzia un fatto reale da un fatto narrativo. Nella vita reale ci sarebbe solo l’esplosione e la morte, nel romanzo c’è tutto il resto. Bisogna solo stare attenti a non esagerare e ad usare i dettagli nel modo giusto, perché se riempi un racconto di dettagli che non servono — la famosa pistola di Cechov — il lettore si sente frustrato e, alla fine, sarà deluso.

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