Nella guerra in Siria sembra che abbiano iniziato a suonare anche i tamburi di guerra dell’Europa. Nel giro di poche ore il presidente francese Hollande e il premier britannico Cameron hanno annunciato l’avvio delle operazioni belliche da parte delle rispettive aviazioni contro lo Stato Islamico. I caccia-bombardieri dei due Paesi si uniscono a quelli americani, e a quelli del resto della coalizione, nella missione di attacchi aerei contro gli obiettivi dell’Isis.
Sarebbe tuttavia fuorviante pensare che l’Occidente si stia preparando a una guerra aperta in territorio siriano: la situazione sul terreno è oggi troppo confusa, e mancano sia un obiettivo definito, sia un quadro regionale adeguato, sia una exit strategy in caso di intervento.
La situazione sul campo
In Siria, dopo oltre quattro anni di guerra, gli schieramenti si sono frammentati, i cambi di alleanza sono all’ordine del giorno e al momento non è ancora emersa una fazione chiaramente in situazione di vantaggio. Il regime di Bashar al Assad controlla la maggior parte della fascia costiera e il centro delle grandi città, in particolare Damasco e Aleppo, ma è sotto attacco da più parti su quasi l’intero territorio ancora sotto il suo dominio.
I ribelli sono divisi: da una parte quel che rimane dell’Esercito Libero Siriano (la parte moderata della ribellione) è costretto ad un’alleanza di convenienza con le formazioni jihadiste – in particolare Jabhat al Nousra, affiliata ad Al Qaeda – e insieme contendono la costa e le città ai lealisti da nord e da sud; dall’altra lo Stato Islamico porta avanti una sua propria agenda, combattendo sia contro il governo che contro i ribelli, e controlla l’entroterra desertico del Paese.
I curdi poi, che fin dall’inizio delle ostilità hanno preso il controllo dei propri territori al nord e che finora sono stati i più acerrimi nemici dell’Isis, hanno una tregua de facto con il governo e anzi probabilmente si coordinano con le truppe di Assad per contrastare gli uomini del Califfato. Le altre minoranze – drusi e cristiani in particolare – sono state progressivamente spinte dalla parte del regime di Assad (che pure all’inizio della guerra civile avevano combattuto) dalla paura del dilagante fanatismo islamico.
La situazione in Siria aggiornata al 30 agosto 2015
Il quadro regionale
Oltre all’estrema frammentarietà della situazione all’interno della Siria, milita contro l’ipotesi di un risolutivo intervento militare occidentale nel Paese anche il quadro regionale. La Siria è uno dei tanti Paesi in cui si sta combattendo una proxy war tra Iran e Arabia Saudita, i due Stati che si contendono l’egemonia regionale e che sfruttano e alimentano la faida tra sunniti e sciiti scatenatasi dopo il fallimento delle Primavere arabe.
La Siria è uno dei tanti Paesi in cui si sta combattendo una proxy war tra Iran e Arabia Saudita, i due Stati che si contendono l’egemonia regionale
L’Iran, assieme alla Russia, sostiene la dittatura di Assad – che è alawita, una minoranza religiosa assimilata allo sciismo – mentre l’Arabia Saudita finanzia e arma i ribelli sunniti. Oltre all’appoggio dei Saud, i ribelli godono anche di quello della Turchia e del Qatar, ma spesso le divergenze tra le agende politiche dei tre Paesi (Erdogan è il primo sostenitore della Fratellanza Musulmana, in seno ai ribelli, mentre per i sauditi si tratta di un’organizzazione terroristica) hanno portato a scontri fratricidi tra gruppi di insorti.
Un recente accordo tra Doha, Ankara e Riad, tuttavia, ha permesso a vari gruppi ribelli – tra cui i qaedisti di Al Nousra – di coalizzarsi nella sigla “Esercito della conquista” e ottenere così alcune significative vittorie contro il regime. Tuttavia l’Iran non è rimasto a guardare e, oltre ad aumentare i finanziamenti diretti ad Assad (grazie anche alla prospettiva della fine delle sanzioni, grazie all’accordo sul nucleare con il Consiglio di sicurezza dell’Onu) e ad inviare altri propri corpi speciali sul terreno, ha ulteriormente mobilitato l’Hezbollah libanese – sciita e pedina di Teheran – per puntellare Damasco (di recente pare che anche Mosca stia intensificando il proprio apporto, forse addirittura mandando truppe speciali sul terreno).
In questo garbuglio sembra oltretutto che i Sauditi, pur di minare gli alleati dell’Iran, abbiano più o meno indirettamente aiutato e finanziato anche l’Isis, e anche la Turchia – in ottica anti-curda – pare abbia fatto lo stesso: per Ankara, che pure ha di recente annunciato la propria partecipazione alla coalizione anti-Isis, la priorità strategica è impedire la nascita di un’entità curda autonoma ai suoi confini, e non sconfiggere lo Stato Islamico, che anzi era stato a lungo un utile alleato di fatto. Il recente infiammarsi dello scontro con il Pkk curdo lo dimostra.
L’eventuale intervento occidentale
Per ipotizzare un intervento da parte dell’Occidente sarebbe dunque prima da chiarire quale nemico si intende abbattere. Mandare truppe di terra per sconfiggere l’Isis sarebbe un enorme regalo al regime di Assad, di conseguenza all’Iran (e alla Russia), e quindi un grave sgarbo ai Sauditi, alleati storici di Washington; inoltre anche la causa dei curdi trarrebbe enorme vantaggio dall’annichilimento del Califfato, e per reazione la Turchia (di nuovo, un alleato storico dell’Occidente nell’area e membro Nato) si infurierebbe con conseguenze inimmaginabili per la stabilità regionale.
Intervenire sia contro l’Isis che contro il regime sarebbe difficile, ma non impossibile, se il resto della ribellione siriana fosse coesa e affidabile. Entrambi i requisiti però mancano: gli insorti sono divisi e fortemente infiltrati da componenti jihadiste, anche qaediste. I pochi ribelli finora addestrati dagli Usa – con un dispendio economico molto elevato – ad esempio, sono stati immediatamente catturati e neutralizzati dagli uomini di Al Nousra.
In questo quadro manca ancora del tutto un’exit strategy per il dopo-Assad. «Un intervento risolutivo di terra da parte dell’Occidente mi pare altamente improbabile, la situazione è troppo confusa. Non vedo una significativa evoluzione dell’atteggiamento europeo e americano riguardo la Siria», spiega Claudio Neri, direttore dell’Istituto italiano di studi strategici.
Neri: «La soluzione alla questione siriana arriverà ma da un’intesa tra le potenze regionali coinvolte»
«Adesso bisognerà capire che tipo di impegno sono disposti a promuovere Parigi e Londra – prosegue – ma i due Paesi ma non hanno un’aviazione tale da poter cambiare in modo rilevante la campagna di bombardamenti aerei già in corso contro lo Stato Islamico. Probabilmente si aggiungeranno a quanto già fanno gli Usa: uno sforzo blando, molto mirato contro l’Isis, che si qualifica più come attività di contro-terrorismo che non di contro-guerriglia, e certo non di guerra. La decisione di Hollande e Cameron ha più una valenza politica che altro».
La guerra in Siria è dunque destinata a proseguire il suo corso con un apporto solo marginale da parte dell’Occidente, mentre la vera partita rimane quella tra Teheran e Riad. «La soluzione alla questione siriana credo non arriverà dall’interno della Siria, ma da un’intesa tra le potenze regionali coinvolte», conclude Neri. «Quando emergerà un vincitore dallo scontro tra Arabia Saudita e Iran, e le sfere di influenza verranno spartite, allora sarà possibile trovare un accordo di pace».