Nella prima delle sue celeberrime Lezioni americane, Italo Calvino attacca con una grande difesa della leggerezza e scrive: «la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo sono qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle». Poi Calvino si mette a fare un esempio; parla del mito della Medusa e di come Perseo riuscì a sconfiggerla. Lo sguardo della Gorgone pietrificava tutti quelli che osavano incrociarlo, ma come fare a ucciderla senza poterla guardare? Perseo si inventò il trucco dello specchio ed ebbe la meglio del nemico. Era tutta questione di punto di vista, perché ogni tanto guardare direttamente in faccia i problemi non è la soluzione migliore, anche se ci sembra la più istintiva.
In qualche modo, Woody, il cane basenji di tre anni protagonista dell’omonimo romanzo di Federico Baccomo, pubblicato il 21 ottobre da Giunti, attiva lo stesso meccanismo: cambiando il punto di vista, guardando da una diversa prospettiva una tematica pesante e dolorosa come la violenza sulle donne, il cagnolino Woody ci schiaffa in faccia con u sorriso una delle più gravi malattie croniche della nostra società. E come lo specchio permette a Perseo di annullare la pesantezza dello sguardo di Medusa, questo simpatico e ingenuo quattrozampe serve a Baccomo per affrontare la pesantezza di un discorso terribile quanto comune senza rischiare pietismo o vittimismo, e senza cadere nella trappola di cliché buonisti e politically correct. Una leggerezza che è resa sulla pagina dal tratto delle illustrazioni di Alessandro Sanna, candidato italiano al Premio Hans Christian Andersen 2016 come miglior illustratore.
«Dal punto di vista di un cane tutto assume un’altra grandezza, un’altra complessità» ci racconta l’autore, intervistato in anteprima da Linkiesta. «Anche le cose più banali diventano oggetto di meraviglia se raccontate da un punto di vista ingenuo e naif come quello di un cane, e quando capita il male, che magari spesso tendiamo a dare per scontato — come capita purtroppo per le violenze sulle donne — raccontato da quel punto di vista recupera la sua dimensione, anzi, ci fa ancora più male».
Woody è un simpatico e ingenuo quattrozampe che serve a Baccomo per affrontare la pesantezza di un discorso terribile quanto comune senza rischiare pietismo o vittimismo, e senza cadere nella trappola di cliché buonisti e politically correct
Come ti è venuto in mente di parlare delle violenza delle donne raccontando la storia di un cane dal punto di vista di un cane?
In realtà nasce tutto dalla passione per l’umorismo. Io sono sempre stato convinto che la battuta fosse la cosa forte, però poi, più frequentavo l’umorismo — scrivendone, facendone, ascoltandone — mi sono accorto che la forza di una battuta in realtà sta tutta nelle premesse. Non è un caso che su Spinoza.it il modello delle battute è fisso e parte dalla notizia, sempre, e poi viene capovolta. E poi c’è un’altra verità, ovvero che di un comico la cosa che ti fa veramente ridere è il punto di vista. Pensaci, prendi Woody Allen, per esempio. Sai sempre più o meno dove vuole arrivare e quale sarà la sua battuta: parlerà sempre della morte, dell’insensatezza della vita; se prendi invece uno come Seinfeld, ironizzerà sulle storture della vita quotidiana, Bill Hicks del fatto che il sistema ti vuol distruggere il cervello. Anche per gli italiani è uguale: ognuno ce l’ha, da Benigni a Troisi. Il punto di vista è quel che ti permette di far arrivare la battuta, e la battuta è il capovolgimento di una realtà che tu dai per acquisita e già processata.Ma perché hai pensato a un cane?
Cercavo un punto di vista che fosse per me inedito, che mi permettesse di parlare di quel che ci succede tutti i giorni da una prospettiva che non fosse la mia, ma che fosse bassa, laterale. E il cane se ci pensi è perfetto per questo: è l’animale più vicino all’uomo senza essere un uomo. Molto più del gatto, perché un cane — e chi ce l’ha lo sa — vive una sorta di simbiosi con il padrone. Una volta scelto il punto di vista mi è venuto naturale trovare la lingua.«Cambiando il punto di vista anche le cose più banali diventano oggetto di meraviglia e quando capita il male, che magari spesso tendiamo a dare per scontato — come capita purtroppo per le violenze sulle donne — raccontato da quel punto di vista recupera la sua dimensione, anzi, ci fa ancora più male»
Perché hai deciso di farlo parlare in quel modo?
La lingua è fondamentale, anche perché è proprio dalla lingua che tu capisci un personaggio. Io non ho mai amato le descrizioni dirette dei personaggi, mi è sempre piaciuto scrivere dialoghi, perché da come parlano che capisci chi sono e che posto nel mondo hanno. E con un cane effettivamente è stato divertente perché la domanda da cui partire è come diavolo parlerebbe un cane se parlasse? Io ho scelto di farlo parlare con un linguaggio e una struttura della frase che somigliano a quella di uno straniero o di un bambino. È come quando vai a Londra: hai un vocabolario limitatissimo, hai difficoltà a costruire le frasi e quindi sei portato ad andare all’essenza delle cose. E usare questa lingua basica, con pochi vocaboli, pochi verbi, insieme al punto di vista genuino che può avere un cane mi ha permesso di arrivare a dire quel che volevo veramente, senza i fronzoli e le sovrastrutture che magari avrei messo se avessi usato una lingua letteraria. Anche se poi quel che racconta sono cose grosse, perché alla fine il libro parla della perdita dell’innocenza, del fatto che il mondo può essere molto cattivo.Che possibilità ti ha aperto la scelta di parlare dal punto di vista di Woody?
Tante, perché come ti dicevo prima dal punto di vista di un cane tutto assume un’altra dimensione. Non parlo soltanto di cose come la prigionia, la violenza, la libertà, ma anche cose molto più piccole come un bacio. Pensa a questo piccolo gesto che noi facciamo tutti i giorni con le persone che amiamo: cos’è un bacio dal punto di vista di un cane? Una cosa assurda… i cani hanno una sessualità completamente diversa, si odorano il sedere per capire l’altro, noi non lo facciamo, noi ci baciamo e un cane non capisce che diavolo facciamo e ci guarda dal basso, anche perché per loro bocca contro bocca significa lotta, al limite gioco, ma non sessualità e amore. E quindi anche le cose più banali diventano oggetto di meraviglia e quando capita il male, che magari spesso tendiamo a dare per scontato — come capita purtroppo per le violenze sulle donne — raccontato da quel punto di vista recupera la sua dimensione, anzi, ci fa ancora più male. E forse, causandoci un piccolo shock, ci permette di provare più empatia, ci tocca e ci indigna di più. In più il punto di vista naif di un cane, con tutta la sua semplicità, mi permette di infilare un sorriso anche nella tragedia, e per me l’esigenza di sorridere è primaria, anche quando ci troviamo di fronte alla tragedia.Qualche anno fa avevi scritto una bellissima replica a un articolo — diciamo sfortunato — scritto da Marco Cubeddu. Anche in quel caso si parlava di sessismo e tu lo affrontavi con ironia. Con Woody torni con durezza sul tema della violenza sulle donne, come mai questa decisione?
All’inizio la storia doveva essere tutta centrata su Woody, sulla sua vita, poi mi sono accorto che la vera protagonista era la ragazza, quel frammento di vita di cui lei era vittima e protagonista. Però sì, la violenza sulle donne è un tema che mi provoca veramente tanta rabbia, probabilmente per il senso di ingiustizia che è insito nella dinamica. Perché nella violenza di genere la donna è la parte più debole — parlo a livello fisico e di aggressività chiaramente — e quindi la violenza che subisce è prevaricazione. Ma forse quello che mi risulta ancora più insopportabile è che noi questa violenza tendiamo a giustificarla e accettiamo di viverci immersi. Se pensi che la stragrande maggioranza degli episodi di violenza sulle donne avviene tra le mura domestiche capisci quanto sia grave e tremendamente radicata nella nostra società.«È come il nonnismo: uno che lo subisce è portato a farlo a sua volta, perché visto che lo ha subìto si sente in diritto di rifarlo. Ed è un processo che va avanti, almeno finché qualcuno non rompe la catena»
Ma perché è così difficile sradicare il fenomeno?
È una faccenda culturale. Quando lavoravo da avvocato mi ricordo le battute che si facevano in studio sulle stagiste, le piccole notazioni sessuali erano all’ordine del giorno. Io ero un ragazzino, avevo 26-27 anni, e rimanevo un po’ stranito a vedere il tuo capo che, pur avendo una certa immagine pubblica rispettabilissima, poi cascava anche lui su queste cose. Io non amo il politicamente corretto, perché a volte ti impedisce di fare delle battute che fanno ridere davvero e che non per forza sono razziste o sessiste. Ma queste battute ormai non fanno più ridere, sono solo un esercizio di potere. Il problema è che questa cosa è accettata, e finché la accettiamo noi la accetteranno anche i nostri figli. È come il nonnismo: uno che lo subisce è portato a farlo a sua volta, perché visto che lo ha subìto si sente in diritto di rifarlo. Ed è un processo che va avanti, almeno finché qualcuno non rompe la catena.