C’era una volta in Anatolia – Once Upon a Time in Anatolia (2011)
Nella notte, nel cuore delle sperdute campagne turche dove l’oscurità è squarciata dai fari delle auto e dalle luci delle locande, un gruppo di uomini si muove in macchina, alla ricerca di un cadavere. Tra loro, un commissario di polizia, un procuratore, un medico e un presunto assassino. La ricerca del cadavere però, sepolto chissà dove, è complicata dal fatto che l’assassino, ubriaco al momento del delitto, non ricorda molto di ciò che è successo. Ma con il passare delle ore questa ricerca esasperante, dilatata e ricca di momenti morti come le indagini reali, incorpora dettagli che mano a mano getteranno luce sull’accaduto.
Nuri Bilge Ceylan è un habitué del Festival di Cannes. Ha vinto nel 2003 il Grand Prix Speciale della Giuria per il film Uzak (un successo replicato nel 2011 proprio con C’era una volta in Anatolia), nel 2008 il premio per la miglior regia con il film Le tre scimmie, e nel 2014 la Palma d’oro con Il regno d’inverno – Winter Sleep, che con C’era una volta in Anatolia condivide la durata decisamente fuori misura rispetto ai canonici 90-120 minuti.
Tutto accade in una notte: dal tramonto all’alba, come in quel film di Scorsese che ormai compie trent’anni. Qui però l’ambientazione è tutt’altro che urbana, e il sonoro è costituito dal frinire dei grilli e dai dialoghi umani sparsi: casuali, realistici, ridotti all’essenziale. Il tutto è raccontato in ben 157 minuti, perché il tempo, secondo Ceylan, non è quello frenetico delle pellicole d’azione, ma il tempo dell’uomo nel suo sofferente cammino.
«Voglio che gli spettatori provino le stesse sensazioni dei personaggi», ha spiegato il regista: «L’industria cinematografica incoraggia i registi a realizzare film della durata standard di circa 90 minuti. Gli scrittori godono di molta più libertà e volevo sfuggire alla regola imposta dall’industria. Questo può scoraggiare una parte del pubblico, ma può affascinarne un’altra».
Tenendo presente che c’è una bella differenza tra leggere un romanzo (che può essere interrotto in qualsiasi momento) e guardare un film di più di due ore, magari costretti nel buio di una sala cinematografica, il voler mettere alla prova lo spettatore fregandosene delle statistiche sulla soglia d’attenzione è sicuramente apprezzabile. In sostanza: vale la pena trascorrere una notte in Anatolia, anche se i minuti passano lenti, quasi stanchi, e per molto tempo, come in un caso reale, non c’è l’ombra di uno sviluppo. Almeno fino al ritrovamento del corpo e alla finale «autopsia uditiva», di sicuro effetto.
Leviathan (2012)
Negli ultimi anni questo mostro biblico-lovecraftiano ha ispirato diversi registi. Molti infatti conosceranno l’omonimo film russo del 2014, più famoso e blasonato, per quanto sempre parte della grande galassia dei film indipendenti. Qui però parliamo di un altro Leviatano: il grosso peschereccio raccontato da Lucien Castaing e Taylor Véréna Paravel nel loro efficace documentario.
Chi non ha mai sognato, come in Moby Dick, di «prendere il mare»? Ed è proprio nelle acque baleniera Pequod che si svolge l’epopea di Leviathan.
Doveva trattarsi di un documentario sull’industria ittica di New Belford, in Massachusetts, ma poi i due registi hanno deciso di concentrare la loro attenzione sulla vita in mare aperto. Hanno quindi piazzato decine di mini-telecamere su un peschereccio, attaccandole ai giubbotti dei marinai, infilandole nelle reti da pesca, fissandole a un’asta per riprendere il volo dei gabbiani. E riuscendo così, attraverso questa frammentazione dei punti di vista, a restituire come mai prima la quotidianità meccanica e cruenta della vita su una nave da pesca: il gabbiano che tenta inutilmente di entrare nella vasca dei resti inutilizzati dei pesci; i pesci stessi, imprigionati nelle reti e poi liberati per essere fatti a pezzi; il lavoro duro e meticoloso dei pescatori e la stessa struttura ferrosa della nave, quasi «cosa viva».
I primi minuti sono addirittura respingenti per via dell’ambientazione notturna (difficile distinguere tra acqua e cielo), dei dettagli strettissimi e della prospettiva confusa dovuta alla molteplicità degli angoli di ripresa.
Per quasi metà film le inquadrature più strette la fanno da padrone, per poi dilatarsi e allargare progressivamente la visuale: ne viene fuori una sorta di epopea disincantata della vita in mare, che può ricordare da lontano, soprattutto per l’uso del sonoro, i grandi documentari di Vittorio De Seta. Se non fosse che l’utilizzo della go-pro – telecamera piccolissima, senza zoom e che può essere agganciata ovunque – lo rende un prodotto originale e modernissimo.
The Battery (2013)
Visto l’approssimarsi di Halloween, e soprattutto se questa estate vi siete goduti il bellissimo horror indie The Babadook, apprezzerete i prossimi due film, che potremmo considerare horror sui generis, godibili anche per i non appassionati del genere. E che anzi potrebbero far ricredere chi identifica il genere con un miscuglio adolescenziale di splatter trash e colpi di scena furbetti con tanto di effetti sonori ad arte. Il panorama underground, nel caso dei film horror, offre una vera rivisitazione. E qui abbiamo due esempi molto efficaci, entrambi con una colonna sonora bellissima.
The Battery è stato apostrofato da più parti come l’«anti-zombie movie». Sono assai preferibili i morti viventi – splendidi mostri proletari a differenza dei vampiri, che sono dandy aristocratici – ma nel cinema e nella tv p.R. (post Romero) difficilmente si trovano zombie convincenti (no: nemmeno The Walking Dead, un po’ meglio Les Revenants). Va accolto con interesse allora questo Z-movie atipico, nel quale – affermano i detrattori – «gli zombie non si vedono quasi mai», ma credete, l’atmosfera c’è tutta.
Il regista Jeremy Gardner è qui al suo primo lungometraggio dopo una serie di corti ispirati ai B-movie. È anche interprete, insieme a Adam Cronheim, coproduttore del film: una coppia di sgangherati survivors, ex giocatori di baseball alle prese con un mondo post Apocalisse Zombie.
Se però Ben – il personaggio di Gardner – sembra essersi adattato al nuovo stile di vita, il comprimario Mickey, invece, non riesce ad abbandonare le esigenze della vecchia quotidianità: un letto, una casa, la compagnia femminile.
Quella che ci racconta Gardner è invece la nuova quotidianità: quella del mondo post-apocalittico, che si nutre, oltre che di scene d’azione, anche di momenti morti e dialoghi banali. In questo modo il regista costruisce una tensione tutta particolare, che si annida nello stomaco anziché esplodere nei colpi di scena. E con qualche punta di ironia racconta la storia commovente di un’amicizia creata dalle circostanze.
The Battery è forse il film indie per definizione. Tutte le riprese si sono svolte nel Connecticut in soli 15 giorni, con un budget di appena 10000 dollari: 6000 per la produzione e 4000 per la distribuzione.
A completare l’allure underground c’è anche la colonna sonora, composta da brani scelti tra interessanti band indie nordamericane come i Rock Plaza Central o El Cantador. Una colonna sonora molto invadente ma giustificata a livello diegetico attraverso la musica che Mickey ascolta compulsivamente con le sue cuffione molto 2012. E che fa da accompagnamento sonoro alla storia, dai larghi spazi dell’inizio on the road fino al claustrofobico abitacolo di un’auto, dove si svolge il bellissimo finale.
It Follows (2014)
Come The Battery ha riscritto le regole degli Z-movies e come Lasciami entrare qualche anno fa ha lanciato un nuovo modo di intendere il filone vampiresco, It Follows ha riscritto il genere del teen slasher.
La protagonista Jay è vittima di una specie di maledizione che viene trasmessa – espediente curioso – tramite rapporto sessuale. Dal momento in cui si viene “infettati” si diventa il bersaglio di una creatura soprannaturale dalla natura non ben precisata (l’It del titolo), in grado di mutare aspetto in quello di qualsiasi persona. Questa creatura seguirà il malcapitato ovunque, spuntando all’improvviso. Camminerà lentamente, dritto verso di lui – «è lenta ma non è stupida» – e se lo raggiungerà sarà la fine. Finché la maledizione non passerà a qualcun altro, l’infetto deve scappare, ininterrottamente.
David Robert Mitchell, al suo secondo lungometraggio, costruisce il proprio film attraverso le
atmosfere rarefatte di un’estate un po’ apatica – le estati infinite dell’adolescenza – che si consuma nel quartierino residenziale quasi deserto – prima di lui solo Wes Craven aveva descritto così bene l’orrore delle periferie borghesi – o sulla riva un po’ malinconica di un lago.
Gli adulti sono praticamente assenti o del tutto inutili, addirittura minacciosi. I dialoghi non sono quelli stereotipati da teen horror. Anzi: il gruppo di amici protagonisti sta anche volentieri in silenzio, con quella complicità che si crea nelle amicizie di lunga data e che non ha bisogno di troppe parole.
In questo quadro rarefatto e sonnacchioso la tensione resta comunque altissima: si passa la maggior parte del film cercando di non distogliere gli occhi dallo schermo, scrutando sullo sfondo per cercare di distinguere la creatura, per capire se sta arrivando.
Naturalmente l’espediente della maledizione allude alle malattie sessualmente trasmissibili. Si potrebbe dire che Mitchell utilizza questo spauracchio come summa di tutte le tensioni affettive e sessuali che accompagnano il cosiddetto coming of age, il passaggio all’età adulta, un tema caro al regista, che l’ha affrontato anche nel suo primo lungometraggio, The Myth of the American Sleepover.
It Follows è stato uno dei più grandi successi indie della stagione. Tanto che anche Quentin Tarantino si è sentito in dovere di dire la sua, complimentandosi per il film ma evidenziandone anche alcune – secondo lui fondamentali – criticità. Con tanto di risposta su Twitter del regista David Robert Mitchell.
Di sicuro però non è criticabile l’efficace e straniante colonna sonora a base di synth, che ben si addice a un finale altrettanto straniante, quasi spiazzante ma del tutto coerente con il film, nei suoi diversi livelli di lettura.