Di recente mi sono chiesta quale sia il costo di tutto questo progresso tecnologico e digitale che abbiamo vissuto nell’ultimo ventennio, del fatto che quel Villaggio Globale sia diventato reale con un click, e anche del fatto che infiniti aspetti della nostra vita siano diventati più semplici e veloci. Deve pur esserci, un prezzo da pagare.
Il primo prezzo che mi è venuto in mente è stato quello superficiale, il più evidente, quello che pertiene il nostro rapporto morboso e simbiotico con i nostri device. Banalmente:
Il senso di smarrimento che proviamo ogni volta che non troviamo il telefono (cosa che a una donna capita almeno una o due volte al giorno, mentre fruga nervosamente in una borsa troppo grande).
L’ansia della batteria che si sta scaricando, il bisogno quasi fisico di avere dell’elettricità, apprensivi come manco le mamme degli anni ottanta. Io vado in giro con una pochette in cui porto tutto l’occorrente per il mio telefono: cavo per ricaricare, cuffie, batteria ricaricabile, adattatore per l’automobile. Praticamente come una mamma che porta in giro le salviette, i pannolini e il biberon per l’infante.
Il fastidio e l’intolleranza che proviamo quando non c’è copertura, l’indignazione per cui in questo mondo nel 2015 esistono ancora posti dove non prende ncazzo, trogloditi, mica come a Milano che va il QUATTROGGì.
Il terrore che ci assale quando pensiamo di aver lasciato lo smartphone sul taxi, sul treno, in qualche posto in cui non lo ritroveremo mai più, nemmeno se tappezziamo la città di volantini con la foto del nostro iPhone e la scritta MISSING!!! Lì è proprio disperazione senza soluzione, tipo quando Leonardo Di Caprio affonda come una sogliola surgelata nelle profondità dell’oceano in Titanic.
Abbiamo l’ansia di rispondere, l’ansia di vedere se ci rispondono, che se uno non risponde per cinque ore probabilmente è morto, di verificare la doppia spunta blu
Ma non è solo questo. Questo è per quel che concerne l’hardware.
Ci sarebbe da parlare di come l’hardware abbia modificato il nostro software emozionale. Le nostre relazioni e i nostri rapporti. Ci sarebbe da parlare del fatto che abbiamo l’ansia di rispondere, l’ansia di vedere se ci rispondono, che se uno non risponde per cinque ore probabilmente è morto, di verificare la doppia spunta blu, di diffidare di quei James Bond che la doppia spunta blu l’hanno nascosta, insieme con l’orario di accesso. Non importa che magari vogliano solo un po’ di privacy, il sospetto che siano narcotrafficanti, mercenari, loschi e bugiardi ci viene a priori, almeno per un momento.
Ci sarebbe da parlare dell’ansia di matchare i network, gli amici in comune, i ristoranti in cui facciamo check-in, gli eventi che fotografiamo e condividiamo su Instagram. Ci sarebbe da parlare del fatto che siamo un esercito di piccoli stalker a loro volta stalkerizzati da privati, aziende, brand. E quasi nessuno ci riflette abbastanza.
Che poi non è che siamo cattivi o tutti stupidi, è che ormai il mondo è cambiato e siamo cambiati anche noi. Ormai consumiamo i flirt su Facebook e teniamo vivi i rapporti di amicizia nei gruppi whatsapp. Abbiamo il porno sempre in tasca e partner sessuali in pronta consegna a casa, semplicemente con un’app. E, per carità, va tutto bene così, non possiamo arrestarlo e non ci compete nemmeno dire se sia meglio o peggio di prima, perché questo sì che ci farebbe sentire vecchi e non avrebbe alcuna utilità. Però sarebbe utile quanto meno essere consapevoli delle cose. Non dimenticarle.
Condividere tutto con tutti è un po’ come non condividere niente con nessuno. E può essere bello stare zitti, a volte. Non esprimere opinioni. Non vantarsi di nulla. Tacere. Spegnere. Scollegare.
Ricordare che una telefonata è più umana di un messaggio vocale, che è a sua volta più umano di un messaggio scritto. E possiamo ricordare che bere un bicchiere di vino insieme, face to tace, è diverso da vedersi su Facetime. Possiamo ricordare che toccare una persona nuda, è diverso da vederla in foto. E che siamo persone, non codici, e indirizzi IP, e like, e commenti, e file inviati, e sticker, ed emoticon. Che siamo fatti di gesti, e rossori, e tessuti, e voci, e lacrime, e odori, e risate. E che a volte è giusto condividere fisicamente, nello stesso spazio reale, gli eventi.
E che condividere tutto con tutti è un po’ come non condividere niente con nessuno.
E che può essere bello stare zitti, a volte. Non esprimere opinioni. Non vantarsi di nulla. Tacere. Spegnere. Scollegare.
Vivere la realtà. Quella che pulsa, che langue, che esiste.
Anche quando non è proprio splendida, tipo quando – nonostante stiamo live-twittando il commento di Pechino Express “insieme” a migliaia di altri utenti -, in verità siamo soli, a casa, come degli stronzi, coi calzettoni di spugna e il mollettone nei capelli, a mangiare una cena pronta, sul divano.
Mi sono accorta che godere così tanto di una cosa da non sentire l’urgenza di condividerla online (come quelle serate bellissime con gli amici, in cui si sta così bene e c’è così tanto da raccontarsi che nessuno propone di farsi un selfie), è un’esperienza sempre più rara.
Sia chiaro che queste cose le dico da persona affetta da over-posting e over-sharing.
Da persona che va a dormire con il suo smartphone e il suo laptop accesi e chiaramente si beccherà qualche accidente per via di questo suo vivere e dormire costantemente immersa in radiazioni e frequenze, o quelchelè.
Dico queste cose da persona che si porta il cellulare dietro anche quando va a pisciare, che capirei di più se uno “va di corpo” (come dicono quelli che non vogliono dire “cacare”), perché almeno si presuppone che sarà una pausa più lunga, ma per la pipì è davvero patologico eh.
Ne parlo da persona che fotografa tutto quello che mangia, e io non volevo diventare una deficiente che fotografa tutto quello che mangia, ma non posso farci niente. E sono così dipendente che se per caso inizio a mangiare, se scompongo il piatto prima di fotografarlo, mi sento anche in colpa, cazzo!, non ho fatto la foto! Questa cosa mi succede sempre con le polpette fritte di mia madre, per esempio. Quando le mangio (raramente, giacché viviamo lontane), io non mi contengo, regredisco, smantello tutte le mie social-strutture. E mangio. Rispondo a un’urgenza sensoriale ed emotiva, così forte da vincere le altre. Quelle della geek, della blogger, della foodie, della staminchia. Davanti alle polpette fritte io sono solo una figlia che ha fame e che si ingozza felice con le lussuriose polpette fritte di sua mamma. Punto. Poi, quando ne ho mangiate almeno cinque, forse, faccio la foto a quelle che restano nella coppa.
E mi sono accorta che godere così tanto di una cosa da non sentire l’urgenza di condividerla online (come quelle serate bellissime con gli amici, in cui si sta così bene e c’è così tanto da raccontarsi che nessuno propone di farsi un selfie), è un’esperienza sempre più rara.
Sono quei momenti che ricorderemo noi, sono la nostra vita e non ci serve il video natalizio di Facebook che ci racconti che anno stupendo abbiamo appena passato.
Quei momenti sono reali, ci coinvolgono a più livelli cognitivi, hanno una profondità e anche un fascino a cui siamo sempre più disabituati. E a proposito di abitudini, da vera reazionaria conservatrice che sulla soglia dei trent’anni sto per diventare, ho iniziato a pensare che sarebbe bene non perderle tutte, le buone maniere e le vecchie abitudini.