Cinque mesi prigioniero del Califfo. “Se non diventi musulmano ti tagliamo la testa”

Padre Jacques Murad racconta la sua storia: sequestrato in Siria dai miliziani dell’Isis, rinchiuso in un carcere a Raqqa. “Se non diventi musulmano ti tagliamo la testa”

«Ogni giorno qualcuno entrava nella mia cella. Mi coprivano di insulti. “Se non diventi musulmano – mi dicevano – ti tagliamo la testa”». Mentre parla, padre Jacques Murad agita la mano in un gesto inequivocabile. Eppure riesce ancora a sorridere. Priore del monastero di Mar Elian, alla periferia della città siriana di Qaryatayn, il sacerdote è stato rapito lo scorso maggio dai miliziani dell’Isis. Per cinque mesi è stato prigioniero del Califfo. Rinchiuso in un carcere di Raqqa nell’attesa di essere decapitato per la sua fede. Poi, lo scorso ottobre, è riuscito a fuggire.

Ospite dell’Associazione Stampa Estera, oggi padre Jacques può raccontare la sua esperienza. Capelli corti, una sciarpa scura sul clergyman nero, parla lentamente in lingua francese. Il primo pensiero va al gesuita romano Paolo Dall’Oglio, scomparso tre anni fa nel nord del Paese. È stato lui a fondare la comunità di Deir Mar Musa, di cui fa parte anche Murad. Una comunità spirituale che da anni aiuta la popolazione siriana. Il simbolo stesso del dialogo tra cristiani e musulmani.

Padre Jacques ricorda la lunga processione dei carcerieri. I tentativi di conversione. Le minacce di morte e l’angoscia della decapitazione. Eppure il religioso ammette di aver vissuto quei giorni con un’incredibile pace interiore

È il 21 maggio quando alcune persone con il volto coperto fanno irruzione nel monastero di Mar Elian. In due entrano nella stanza di Padre Jacques e sotto la minaccia delle armi lo obbligano a seguirli. Il monaco ricorda il lungo viaggio nel deserto. Bendato, legato mani e piedi, per quattro giorni si sposta a bordo di un’auto verso Nord. La domenica di Pentecoste arriva a Raqqa, la capitale del Califfato. Qui il sacerdote viene condotto in prigione. Al contrario degli altri detenuti non ha diritto neppure a una cella. I carcerieri lo chiudono in un bagno. Un’estrema umiliazione, che pure non scoraggia Murad. «Ne sono stato contento – racconta oggi – Era la perfetta rappresentazione della nostra vocazione: essere umili di fronte alle violenze».

La detenzione dura 84 lunghissimi giorni. «Un’esperienza molto intensa dal punto di vista spirituale». Padre Jacques ricorda la lunga processione dei carcerieri. I tentativi di conversione. Le minacce di morte e l’angoscia della decapitazione. Eppure il religioso ammette di aver vissuto quei giorni con un’incredibile pace interiore. Mentre attende la morte, scopre un inatteso senso di serenità. Trascorre le ore recitando il Rosario, si affida alle preghiere che lo hanno sempre accompagnato. In particolare si rivolge a Charles de Focauld, frate Carlo di Gesù. Il religioso francese, proclamato beato da Benedetto XVI, che ha vissuto a lungo nel deserto algerino, dedicando la sua esistenza al dialogo con l’Islam.

«Avevo visto le immagini delle decapitazioni dell’Isis. Quando ho visto quell’uomo incappucciato ho pensato che fosse arrivata la mia ora». E invece, con grande stupore del monaco, il carceriere gli chiede il suo nome. «Voleva sapere se ero un Nazareno, il termine usato nel Corano per definire i cristiani».

Un giorno, nella cella di padre Jacques si presenta un uomo incappucciato di nero. «Avevo visto le immagini delle decapitazioni dell’Isis – ricorda – Quando si è aperta la porta ho immediatamente pensato che fosse arrivata la mia ora». E invece, con grande stupore del monaco, il carceriere gli chiede il suo nome. «Voleva sapere se ero un Nazareno, il termine usato nel Corano per definire i cristiani». Di fronte alla sua conferma, l’uomo gli stringe la mano, rivolgendogli il tradizionale saluto musulmano. As-salam ’alaykum. Murad resta interdetto. I fondamentalisti islamici considerano i cristiani “impuri”. Evitano di toccarli, figurarsi stringergli la mano. E invece tra i due inizia un’inattesa conversazione. Si siedono, cominciano a parlare. «Mi ha spiegato che ero sotto la sua protezione. Il suo capo gli aveva chiesto di prendersi cura di me». A un certo punto il sacerdote si fa coraggio e chiede il motivo del suo rapimento. «Padre – gli spiega l’uomo – Consideri questa esperienza come un momento di ritiro spirituale».

Il 4 agosto è una data dolorosa. Avanzando in territorio siriano, le milizie del Califfo conquistano Qaryatayn, la città dove Jacques Murad guida la locale parrocchia siro-cattolica. Il centro abitato dista un centinaio di chilometri da Palmira. Tutti i cristiani che non fanno in tempo a fuggire dalla zona vengono rapiti. Pochi giorni dopo, il religioso viene portato fuori dal carcere. È l’11 agosto. Costretto a salire su una macchina, per quattro ore viaggia ancora nel deserto. I carcerieri hanno deciso di riportarlo nella sua città. Appena arrivato si trova davanti tutti i cristiani finiti nelle mani dei jihadisti. Ci sono 250 prigionieri. Tra loro molte donne, anziani, bambini, alcuni disabili. «Per me – ammette oggi Murad – è stato un momento molto duro». I prigionieri sono tenuti a Qaryatayn, con il preciso ordine di non allontanarsi dalla città. Intanto, per la prima volta dopo mesi, il monaco non è più in prigione. Viene ospitato nella casa di alcuni parrocchiani. In quei giorni i cristiani ricominciano persino a celebrare la Santa Messa. Le funzioni avvengono di nascosto, in un dormitorio sotto terra. Per non farsi scoprire dai militanti dello Stato Islamico, soprattutto. Ma anche per ripararsi dai continui bombardamenti. Ma la vita sotto il Califfato resta insostenibile: mancano l’acqua, l’elettricità, il cibo.

A metà ottobre, accade quello che padre Jacques definisce un miracolo. Dopo quaranta giorni il sacerdote riesce a fuggire. Scappa travestito da islamico, in sella a una moto, grazie all’aiuto di un altro prigioniero, un musulmano. Lontano dallo Stato Islamico, oggi Murad non dimentica chi è rimasto in Siria. Al termine del suo racconto si rivolge ai giornalisti e lancia un appello all’Europa. «Bisogna assolutamente cercare una soluzione politica, questa è l’unica via per garantire la salvezza della nostra gente». Ma chiede anche che di fronte a questa tragedia ognuno si assuma le proprie responsabilità. Il pensiero va ai tanti migranti che scappano dal conflitto. «Ognuno ha il diritto di vivere in pace e far crescere i propri figli lontano dalle bombe». Senza distinzioni. «La vera vittima di questa guerra – racconta – è tutto il popolo siriano».

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