Il 2015 è stato l’anno delle armi, nel 2016 tocca alla diplomazia

Dalla Libia alla Siria all'Iran, le questioni geopolitiche che terranno banco nei prossimi mesi

In Medio Oriente il 2015 è stato l’anno delle armi. In Iraq l’esercito regolare i guerriglieri curdi hanno dato battaglia agli uomini del Califfo con una determinazione inedita. Sia qui che in Siria i bombardamenti americani si sono intensificati, così come l’impiego di forze speciali a terra. La Francia, dopo gli attentati di Parigi, ha aumentato i bombardamenti su Raqqa. L’Iran ha inviato ancora più uomini ad Assad in Siria, e di contro Arabia Saudita e Turchia hanno incrementato il supporto ai ribelli.

Ma soprattutto a settembre 2015 è intervenuta a sostegno di Assad la Russia, con bombardamenti, forze speciali e dispiegando sistemi missilistici avanzati che le hanno dato la supremazia aerea sulla regione. La contesa tra Iran e Arabia Saudita ha, sempre nel 2015, incrementato gli episodi di terrorismo intra-religioso in tutta la regione. Lo Yemen è stato spaccato in tre dalla rivolta armata della minoranza sciita (Houthi), dalla reazione sunnita (Riad ha bombardato gli insorti e inviato truppe) e dalla espansione territoriale di Al Qaeda.

Anche in Nord Africa le armi hanno tenuto il centro della scena, con le violenze degli Shabab nel corno d’Africa, di Boko Haram in Nigeria e, soprattutto, con la guerra civile libica, che ha sprofondato il Paese nel caos e lasciato terreno fertile all’Isis per radicarsi a Sirte.

Gli appuntamenti più importanti del 2016 sono tre: il negoziato in Libia, la trattativa sulla Siria, l’implementazione dell’accordo sul nucleare e l’eventuale fine delle sanzioni in Iran

Il 2016, al contrario, potrebbe essere l’anno della diplomazia. Gli appuntamenti più importanti sono tre: il negoziato in Libia per la formazione di un governo di unità nazionale e la seguente pacificazione del Paese; la trattativa sulla Siria, che l’intervento russo ha reso più urgente che mai; l’implementazione dell’accordo sul nucleare – e sulla fine delle relative sanzioni – raggiunto dal 5+1 (il Consiglio di sicurezza dell’Onu, più la Germania) con l’Iran.

Libia

La firma, il 17 dicembre in Marocco, dell’accordo tra le delegazioni dei parlamenti di Tobruk e Tripoli – subito riconosciuto dalle Nazioni Unite – ha creato le premesse in Libia per la creazione di un governo di unità nazionale che ponga fine a quasi due anni di guerra civile. Un periodo di tempo in cui non solo l’Isis si è infiltrato ed espanso nel Paese, ma l’economia è stata portata allo stremo, e le bande criminali e jihadiste hanno preso il controllo di traffici lucrosi e rilevanti porzioni di territorio.
Entro fine gennaio – momento previsto per il varo dell’esecutivo di unità – sarà fondamentale, per le diplomazie europee e non solo, portare dalla parte dell’accordo quanti più attori possibili.
Il rischio altrimenti è che gli esclusi dall’intesa, pur di tutelare le proprie rendite di posizione, possano far deragliare il processo di pacificazione, impedendo al nuovo governo di insediarsi nella capitale, lasciando in carica i parlamenti di Tripoli e Tobruk, aumentando il caos istituzionale e conducendo il Paese verso il tracollo. Se infatti riprendessero gli scontri l’economia nazionale collasserebbe, e le potenze regionali (Egitto, Qatar e Turchia in particolare) riprenderebbero probabilmente ad armare le varie fazioni libiche per portare avanti le proprie aspirazioni egemoniche sul Paese. In particolare il Cairo potrebbe appoggiare un golpe del generale libico Haftar. Non potendo prendere il controllo di Tripoli – dove risiedono potenti milizie islamiste – potrebbe però spaccare in due il Paese e governarne la metà orientale (la Cirenaica, che confina con l’Egitto). L’unità del Paese, la sconfitta dello Stato Islamico (con o senza supporto internazionale), il contrasto al traffico di esseri umani – che gonfia i barconi sul Mediterraneo e le tasche della criminalità -, la ripresa delle esportazioni di greggio (e quindi dell’economia) sono risultati che al momento dipendono dal successo dello sforzo diplomatico.

Siria

Molti analisti ritenevano che la diplomazia avrebbe fatto poco per la Siria fino al 2017, quando il nuovo presidente americano avrebbe cominciato ad esercitare le proprie funzioni. L’intervento della Russia lo scorso settembre ha però reso urgente una soluzione negoziale. Come dimostrato dall’abbattimento del cacciabombardiere russo ad opera della Turchia, lo scenario siriano – vista la compresenza in un’area ristretta di velivoli russi, americani, turchi e probabilmente anche israeliani – produce costantemente tensioni che rischiano di creare conseguenze drammatiche a livello anche internazionale. Non solo. Il “build-up” militare della Russia in Siria è in grado di alterare gli equilibri di forza in Medio Oriente.

L’ampliamento delle basi, l’invio di navi, aerei, elicotteri e truppe speciali aveva già destato preoccupazioni in Occidente, ma da quando – sempre dopo l’incidente con Ankara – Mosca ha posizionato i sistemi missilistici di contraerea S-400, garantendosi la supremazia aerea e portando materiale bellico avanzato al confine con la Turchia, l’esigenza di fermare l’espansionismo del Cremlino (fin qui giustificato dal contrasto al terrorismo islamico) si è fatta più urgente. Secondo gli esperti, infatti, se non si toglierà a Putin la scusa per incrementare la presenza russa in Medio Oriente c’è il rischio che gli interessi strategici di Usa e Turchia vengano lesi in modo permanente.

Anche sotto questa luce si spiega l’accelerazione diplomatica che ha portato le Nazioni Unite lo scorso 18 dicembre a trovare un accordo per la transizione politica in Siria. L’intesa dovrebbe consentire l’avvio delle trattative sul futuro del Paese a fine gennaio e ad una contestuale tregua fra le opposizioni e il regime, che consentirebbe di concentrare gli sforzi contro l’Isis e gli altri gruppi terroristici. Al momento ancora non c’è accordo né sul destino di Assad, né su quali gruppi ribelli vadano considerati interlocutori e quali terroristi, e su questi punti la trattativa sarà molto difficile.

L’Arabia Saudita ha ospitato un incontro di numerose sigle ribellialcune considerate jihadiste – in vista del negoziato Onu. La situazione sul campo resta molto complicata. Le fazioni siriane ritenute dall’Occidente “moderate” sono minoritarie.

Il rischio di avvantaggiare la dittatura di Assad, scatenando la reazione sunnita, è speculare a quello di non tutelare gli interessi russi o iraniani, facendo naufragare il negoziato. Non si può escludere – a dispetto delle dichiarazioni – che ai vari attori vengano offerte contropartite in altri scenari per loro strategici (l’Ucraina e le sanzioni economiche collegate per la Russia, lo Yemen per i Saud, l’accordo sul nucleare per l’Iran etc.). Anche in questo caso la via diplomatica è comunque l’unica al momento per ridurre la minaccia dell’Isis, fermare la carneficina e l’esodo del popolo siriano, bloccare l’escalation russa, e in generale sterilizzare una ferita che sta producendo tossine pericolose per la regione e non solo.

Iran

La questione dell’accordo sul nucleare con l’Iran interseca molte delle problematiche regionali. A lungo isolata e sottoposta a sanzioni, Teheran ora ha – grazie all’accordo – l’occasione di emergere come potenza regionale. Più che la questione dell’atomica, è importante la fine delle sanzioni (che sblocca oltre 100 miliardi di dollari di risorse per Teheran) e la fine dell’embargo sulle armi convenzionali (il cui acquisto l’Iran già starebbe trattando con Mosca).

L’Arabia Saudita ha accolto molto negativamente la notizia dell’accordo e non ha mancato di esercitare forti pressioni – in questo sostenuta da Israele – sugli Usa perché la trattativa si fermasse. L’amministrazione Obama si è tuttavia mostrata determinata e finora il percorso negoziale non si è interrotto, nonostante la contrarietà del Congresso (dove i Repubblicani e anche alcuni Democratici sono ostili all’intesa) . Questo accordo – unito alla crescente presa dell’Iran in Iraq, alla mancata caduta di Assad grazie al sostegno di Teheran, all’insorgenza sciita in Yemen e in generale all’espansione della sfera di influenza iraniana nell’area – ha spinto Riad a moltiplicare gli acquisti di materiale bellico (molti proprio dagli Stati Uniti) e ad inasprire lo scontro con l’asse sciita guidato dall’Iran in tutti gli scenari di proxy war esistenti (Siria in primis).

A gennaio dovrebbe arrivare l’ “implementation day”, cioè il giorno in cui – verificato lo smantellamento del programma nucleare di Teheran – l’accordo entra definitivamente in vigore e le sanzioni economiche vengono eliminate. Il presidente iraniano Rohani ha fretta di raggiungere il risultato, per poterlo spendere in vista delle elezioni che a febbraio rinnoveranno non solo il Parlamento (Majlis) ma anche l’Assemblea degli Esperti (che elegge l’Ayatollah supremo), e sta quindi accelerando le procedure per smantellare le centrali nucleari e smaltire l’uranio.

Tuttavia nelle more dell’implementazione dell’accordo non si esclude né che riescano a farlo deragliare i falchi iraniani, né che l’incidente avvenga dal lato statunitense. Se infatti l’accordo svanisse ne trarrebbero enorme vantaggio israeliani e sauditi (due lobby potenti negli Usa) e i Repubblicani distruggerebbero un pilastro della politica estera di Obama. Ma indebolendo i moderati a Teheran, secondo gli esperti, si correrebbe il pericolo di ri-trasformare l’Iran in un fattore di destabilizzazione dell’area. E considerato il coinvolgimento iraniano nel contrasto allo Stato Islamico, nonché in una molteplicità di altri scenari (Libano, Yemen, Afghanistan, Iraq, Bahrein), il rischio di una ulteriore degenerazione delle violenze e del terrorismo sarebbe elevato.

La speranza è che per via diplomatica si riesca a trovare un accordo tra Iran e Arabia Saudita sulle rispettive sfere di influenza, garantendo a Teheran un ruolo da attore geopolitico di primaria importanza in cambio di un suo contributo alla stabilizzazione della regione (a Riad andrebbero ovviamente date altre contropartite e garanzie, economiche e militari). Senza un tale accordo è probabile che le guerre in Medio Oriente proseguano per molti anni.

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