Non esiste occasione in cui il premier Renzi non inneggi ai risultati strabilianti del Jobs Act in termini di occupazione. L’ultima occasione, la Leopolda, laddove circolava questa fantastica slide, ben riassunta dal tweet del Professor Riccardo Puglisi, sugli effetti delle misure del Governo sul tasso di disoccupazione.
Non vorremmo sembrare troppo “ironici”, eppure è inutile nascondere che lo “storytelling” del Governo sulla questione, come su altre di più stretta attualità politica, inizi ad appesantirsi, a essere stonato rispetto a quelle che sono le evidenze empiriche esistenti. Queste, sebbene rimangano spesso una questione “tecnica”, non possono che farsi strada da sole, nel rumore di fondo, se supportate da argomenti solidi e dall’assenza di fini propagandistici.
L’ultimo comunicato stampa di Istat, cui va il nostro plauso convinto per la qualità del lavoro svolto, basato sulle stime trimestrali dell’inchiesta sulle forze lavoro, ha il pregio di introdurre un insieme di nuovi indicatori, che descrivono dettagliatamente sia i fattori principali sottostanti la domanda di lavoro delle imprese, sia lo stato delle transizioni nei vari stati di lavoro dei singoli individui, con un focus speciale sulle transizioni dai contratti precari a quelli stabili.
In effetti, l’obiettivo principale del Jobs Act, più e più volte riconosciuto dal Governo stesso, è quello di migliorare la composizione contrattuale della forza lavoro, in modo da aumentare le opportunità di lavoro a tempo indeterminato per i lavoratori intrappolati in forme contrattuali spesso precarie, dove gli investimenti in formazione e competenze specifiche è di fatto reso più difficile dalla mancanza di “stabilità” del rapporto.
L’andamento dell’occupazione è stato positivo per tutto l’anno 201, eppure confrontando il dato con lo stesso trimestre dell’anno precedente, si nota che è più alto di soli 0.8 punti percentuali
Si può, o no, essere d’accordo con tale impostazione, che pecca a nostro avviso di problemi di “causalità inversa” abbastanza rilevanti. Essendo, però, quello l’obiettivo dichiarato della riforma, non resta che valutarne i risultati rispetto all’intento.
Prima considerazione di ordine generale. L’andamento dell’occupazione è stato positivo per tutto l’anno 2015. Nessuno ha mai voluto negare l’aumento nel tasso di occupazione, pari nel 3 trimestre 2015 al 56.7% per i 15-64enni.
Eppure confrontando il dato con lo stesso trimestre dell’anno precedente, si nota che è più alto di soli 0.8 punti percentuali. Nel 2012, anno orribile da un punto di vista economico, il tasso di occupazione per lo stesso gruppo di età era lo stesso dell’anno in corso. Bene aver invertito la tendenza, ma i miracoli stanno altrove. In più, come ben mostrato dal grafico 1, gli andamenti dei tassi di occupazione per gruppi di età mostrano come le ferite della crisi siano lontanissime da essere rimarginate, soprattutto per i più giovani, mentre per gli anziani più che al Jobs Act, bisognerebbe accendere un cero alla tanto bistrattata Fornero, cui vanno ancora i nostri complimenti per una delle poche vere riforme strutturali fatte in Italia nell’ultimo lustro.
Scavando con più attenzione nei dati, si può notare un lieve miglioramento congiunturale del tasso di occupazione per i più giovani, segnatamente nell’ultimo trimestre. Il grafico 2, infatti, mostra come le maggiori opportunità di lavoro per i 15-24enni e per i 35-49enni, siano un fatto recente. A cosa è dovuto? Al Jobs Act o a qualche altro fattore concomitante. Il grafico 3 suggerisce in modo deciso di abbracciare la seconda ipotesi. Si può notare come nell’ultimo trimestre sia stata, a tutti gli effetti, l’occupazione a termine a espandersi.
Imputare alla legge del Governo questo piccolo aumento nel tasso di occupazione dei giovani, è per noi un esercizio sia affrettato, sia un poco spericolato, essendo contrario alle evidenze empiriche esistenti. I giovani pare che continuino a essere assunti, principalmente, con contratti a tempo determinato.
Questi ultimi sono, infatti, cresciuti del 4.5% rispetto al trimestre precedente, mentre i contratti a tempo indeterminato sono in flessione dello 0.4%, dopo due primi trimestri 2015 in cui erano cresciuti dello 0.3% e 0.4%, rispettivamente. Anche qui nulla di miracoloso, se si pensa ai corposi incentivi alle assunzioni che accompagnavano la riforma del lavoro. La crescita dei contratti precari è, in effetti, pari a quella registrata nella prima fase di espansione, avvenuta a cavallo fra 2010 e 2011, prima di ripiombare nella crisi della zona Euro. Non si notano, affatto, cambiamenti strutturali. L’aumento degli occupati pare essere, ancora una volta, incentrato principalmente sui contratti a tempo.
Che il Jobs Acts stenti, sinora, a produrre effetti robusti, lo si nota in modo inequivocabile dal grafico 4, che mostra i nuovissimi indicatori calcolati da Istat. Si tratta dei tassi di transizione da contratti precari a stabili e verso forme di lavoro indipendente. L’indicatore è definito come la proporzione di persone che transitano in un anno da una tipologia contrattuale a un’altra. È perciò l’indicatore principe per valutare gli obiettivi del Governo, sopra menzionati, in tema di stabilizzazione dei contratti.
Come si nota, dopo un leggero aumento del tasso di transizione verso contratti a tempo indeterminato, avvenuto nel primo trimestre 2015, il dato si situa attorno al 20%, 0.8 punti percentuali in più di un anno prima (grafico 5). Il tasso di permanenza in contratti a tempo determinato è, anch’esso, in aumento, oramai vicino alla quota del 60%, 2.5 punti percentuali in più di un anno prima.
A essere migliorata, di poco, è la condizione generale dell’economia, come si evince dal fatto che i tassi di transizione da contratti precari alla non occupazione sono in caduta di 3.5 punti percentuali rispetto a un anno prima. Il messaggio è rafforzato dal grafico 6, che mostra i tassi di transizione dalla disoccupazione all’occupazione e all’inattività. Il tasso di transizione verso l’occupazione è in aumento di 0.7 punti percentuali rispetto a un anno prima. Una buona notizia, sebbene, ancora una volta, non si notino effetti miracolosi. I disoccupati italiani non possono, in alcun modo, sospirare beatamente per la ritrovata via verso il lavoro.
Il messaggio, a nostro avviso, resta sempre lo stesso. Le regole contrattuali e gli incentivi impliciti a esse collegati sono certamente importanti per un buon funzionamento del mercato del lavoro. A oggi, con i dati in possesso, non si nota, però, alcun cambiamento strutturale e sostanziale della situazione preesistente. La lenta ripresa ciclica e gli incentivi alle assunzioni guidano il lieve aumento dell’occupazione. Non ci pare che con prospettive di crescita al lumicino, ci si possa per ora distrarre o cimentarsi in trionfalismi fuori luogo.