Sindrome Hunger Games: tifiamo la rivolta, ma votiamo l’autorità

L’ultimo episodio della serie dalla trilogia di Suzanne Collins ci mette di fronte a un paradosso: i giovani al cinema tifano il pensiero radicale, ma alle urne votano partiti tradizionalisti che sostengono l'ordine e la sicurezza

Di questi tempi, dopo gli attentati di Parigi, tutti i discorsi che ne sono seguiti e gli esiti del primo turno delle elezioni amministrative francesi, andare a vedere al cinema l’episodio finale della serie di Hunger Games ci mette di fronte a una contraddizione.

L’immaginario di una parte della cosiddetta generazione Bataclan, come è stata frettolosamente etichettata dai media, tifa il pensiero radicale, eppure, gran parte parte delle loro schede elettorali contribuiscono a eleggere chi inneggia alla sicurezza e all’autoritarismo e alla difesa dello status quo. A dimostrarlo sono le altissime percentuali di voto per il Front Nationale di Marine Le Pen nella fascia tra i 18 e i 30 anni — vicine al 35 per cento —, o ancora, in Italia, il costante aumento nei sondaggi del sostegno alla Lega nazionalista e identitaria di Matteo Salvini.

Hunger Games – Il Canto della Rivolta Parte 2, questo il titolo completo dell’ultimo episodio ora nelle sale, è il culmine di una delle serie narrative di più travolgente successo di sempre. Una di quelle, al pari di Harry Potter e di Twilight, che ha permeato negli ultimi anni l’immaginario narrativo dei giovani tra i 15 e i 25 anni. Giusto per capire l’entità del fenomeno, l’intera serie di Hunger Games (quattro film tra il 2012 e il 2015) ha incassato in tutto il mondo una cifra vicina ai 3 miliardi di dollari.

L’immaginario della generazione Bataclan tifa il pensiero radicale, ma vota chi inneggia alla sicurezza

Un riassunto veloce, per chi non sa di cosa si tratta. Hunger Games è la storia di un enorme conflitto di classe, uno scontro tra centro e periferie, tra ricchi e poveri di una nazione che si chiama Panem, una dittatura autocratica a base mediatica che è sostanzialmente una reinvenzione distopica degli Stati Uniti d’America.

Panem è un paese governato da una minoranza ricca, per lo più anziana e decadente, che mantiene il controllo sulla maggioranza povera e sfruttata attraverso un potere autoritario che si manifesta negli Hunger Games che danno il titolo alla serie, giochi che non sono altro che sacrifici rituali televisivi, perfetto sincretismo tra le lotte tra gladiatori nelle arene romane e i talent à la X Factor dei nostri tempi.

In questo terzo e ultimo episodio il conflitto tra i buoni, guidati dalla giovanissima Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence), e i cattivi, comandati dal tiranno Coriolanus Snow (Donald Sutherland), si trasforma in una aperta e sanguinaria guerra civile. Un conflitto che di questi tempi viene istintivo trasportare, fuori dagli schermi cinematografici e dalle pagine di un romanzo, a quello che si sta creando davanti ai nostri occhi: una minoranza ricca e culturalmente decadente alimenta la propria ricchezza sullo sfruttamento del resto del mondo, sempre più povero e prostrato, e difende la propria opulenza con un apparato di sicurezza sempre più invasivo, comodamente all’altezza della psicopolizia londinese immaginata da George Orwell. Le somiglianze con il mondo in cui viviamo ci sono tutte, solo che c’è probabilmente qualche problema di identificazione.

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Nel film i buoni, ovvero quelli con cui noi spettatori tendiamo naturalmente a identificarci, sono i poveri, sono quelli che abitano alle periferie dell’impero e che reagiscono all’arroganza e alla prevaricazione della minoranza della Capitale. È per loro, per i ribelli che combattono per riportare la giustizia e l’uguaglianza a Panem guidati dal coraggio dell’eroina Katniss Everdeen che tifiamo tutti.

Quelli che detestiamo nella finzione cinematografica sono i cittadini ignavi della capitale, quelli che se ne stanno chiusi in casa davanti alla televisione e che formano l’umanità pavida che si lascia governare dall’imbonitore mediatico di turno. È un’umanità che nel film emerge come ridicola, viziata, piena di tic e pose estetiche che sembrano una versione distopica di un’hipsteria incancrenita. Ma il riflesso incondizionato di noi spettatori è quello di pensare che siano la caricatura di noi stessi.

Quelli che detestiamo sono i cittadini ignavi della capitale, che se ne stanno chiusi in casa davanti alla televisione. L’umanità pavida che si lascia governare dall’imbonitore mediatico di turno.

L’immaginario radicale è da sempre molto invitante, quanto meno dal Romanticismo in poi, e nessuno problematizza il fatto che, tra l’impero e l’Alleanza Ribelle di Star Wars, la nostra istintiva identificazione ricada su questi ultimi. D’altronde in quel caso l’associazione a cui pensiamo vedendo sfilare le armate nere dell’Impero è il nazismo, non certo le nostre democrazie.

In questo caso il discorso appare diverso. Perché nel finale di quest’ultimo episodio, vedendo sfilare ordinatamente i cittadini della capitale verso il palazzo presidenziale di Snow, viene naturale pensare che quei goffi e viziati cittadini non siano altro che una caricatura di noi stessi, una goffa e viziata borghesia decadente, terrorizzata da tutto ciò che c’è oltre i confini della città e pronta ad abdicare alle libertà pur di vivere sotto il confortante ombrello dell’ordine e della sicurezza.

Il paradosso resta lì, irrisolto, probabilmente irrisolvibile. Perché, pur essendo così tanto affascinati da eroine cinematografiche che sono più vicini alla nostra nemesi che a noi, contemporaneamente subiamo sempre di più il fascino di una politica sempre più autoritaria che difende il nostro diritto a continuare ad essere quei pavidi cittadini di Capitol City?

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