Giorno della memoria: ecco perché lo stiamo celebrando male

Serve a poco ricordare la Shoah se non ci rendiamo conto di un fatto fondamentale: i carnefici siamo innanzitutto noi stessi

Sono passati 15 anni dalla prima volta che ci siamo ricordati ufficialmente della Shoah e la giornata della memoria, come ha titolato qualcuno, sembra già vecchia. E ha ragione, ma non perché è vecchia come le tradizioni, ovvero solida, bensì perché vecchia come gli anziani, ovvero debole. Grottesco: la legge del tempo è molto semplice, quasi banale, nel dimostrarci continuamente che ciò che è passato finisce nell’oblio e che l’unico modo che conosciamo di perpetrare qualcosa è raccontarla, trasformarla in arte, ovvero in rappresentazione.

La Giornata della memoria non fa eccezione. Ma se un momento pensato dal nostro Parlamento «affinché simili eventi non possano mai più accadere» — dove dietro simili si nasconde l’ombra terrificante di un massacro meticoloso, lucido e per questo ancora più mostruoso — sta già prestando il fianco allo scorrere del tempo, significa una cosa sola: lo stiamo raccontando male. O meglio, non lo stiamo raccontando, lo stiamo santificando.

Ci sono due modi per tentare di ricordare un evento. Il primo è dedicargli monumenti, il secondo è trasformarli in narrazione, raccontarli. I primi vivono una veloce decadenza: prima ci abituiamo e ai nostri occhi diventano arredo urbano; poi si anneriscono di smog. I secondi, se sono fatti con l’urgenza e la passione di chi sa raccontare le storie, resistono molto meglio. Non è un caso che sia proprio sui libri che si costruiscono le religioni.

Noi, quindici anni fa, promulgando la legge n.211 del 20 luglio del 2000, promulgata dal Parlamento della Repubblica abbiamo fatto l’errore di erigere un monumento, aggiungendo il vizio di forma ulteriore di averlo dedicato alla memoria delle vittime, e non all’infamia dei carnefici.

Ricordare il bene, in questo caso l’innocenza e la giustezza dei buoni, con un monumento di marmo barocco come la Giornata della memoria, vuol dire condannarlo all’oblio, al logorio, e in ultimo (e questo è forse il destino di tutti i monumenti nell’era della de-sacralizzazione) alle deiezioni dei piccioni.

Se proprio eravamo così sventurati da aver bisogno di monumenti, quanto meno avremmo dovuto erigerne uno all’infamia, all’infamia dell’uomo comune.

Il Giorno della memoria esiste perché diverse milioni di persone hanno accettato nel silenzio che una tragedia come il massacro di altre milioni di persone appartenenti a minoranze religiose, etniche, sociali e politiche si avverasse. Stiamo celebrando questa giornata perché ormai quasi 80 anni fa gente come noi non si è opposta al delirio, si è girata dall’altra parte o, addirittura, si è resa complice della barbarie.

Noi dobbiamo ricordarci di quello, della banalità di quello che è successo. È troppo facile immedesimarsi nelle vittime. E forse è addirittura troppo facile mettersi una kippah in testa, dichiarare fratellanza ai popoli nomadi, lottare per i diritti degli omosessuali o dichiarare — citando ogni volta Voltaire a sproposito — che non siamo d’accordo con voi ma che saremmo pronti a morire per garantire a chiunque il diritto di esprimere le opinioni su cui non siamo d’accordo.

Immedesimiamoci nei carnefici, perché lo siamo stati. Ricordiamoci di cosa vuol dire far finta di niente quando arrestano gente per il solo reato di essere se stessi, perché sta ancora accadendo.

Qundi: provocazione. Se proprio vogliamo un monumento attorno alla quale recarsi per celebrare un rito, allora edifichiamolo all’infamia. Non è banale ricordare che i lupi siamo noi. Non è banale soprattutto perché sotto la lana posticcia che ci siamo buttati addosso in questi decenni, siamo ancora gli stessi lupi.

Insomma, celebriamo la memoria con gli strumenti che le sono propri, che non sono le statue, ma i racconti, le narrazioni, e continuiamo a raccontarci quella storia, sempre meglio, con più lucidità e meno retorica, anche perché il racconto è l’unica cosa che ci resta, perché alla fine, sia la pipa che Magritte sono polvere.

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