Tra i 12 mila candidati alle elezioni di febbraio – un record, per la Repubblica islamica – c’è anche Hassan Khomeini, nipote del padre della patria, simbolo della rivoluzione che si fa istituzione, emblema della fuga dello scia’ e dell’avvio della nuova era.
Sarà l’anno dell’Iran, dicono gli strateghi di geopolitica, sfogliando il calendario e puntando il dito su una data ancora imprecisata, tra gennaio e febbraio, quella dell’Implementation Day, il giorno in cui Teheran concluderà gli impegni presi con il gruppo dei 5+1 (i Paesi del Consiglio di Sicurezza ONU, più la Germania) e la comunità internazionale, fatte le dovute verifiche, dichiarerà finito il regime delle sanzioni, votate in risposta al programma nucleare.
Sarà l’anno dell’Iran, temono le monarchie sunnite del Golfo, secondo le quali i fondi sbloccati dalla fine delle misure punitive – cento miliardi di dollari, calcolano alcuni – andranno in parte a finanziare il progetto di una mezzaluna sciita, un asse geopolitico antitetico, che prevede il sostegno al governo iracheno, al regime siriano di Assad e alle milizie libanesi di Hezbollah.
Sarà l’anno dell’Iran, scrivono gli analisti economici, osservando il petrolio che scende a meno di quaranta dollari al barile, costringe i sauditi a fare i conti con l’austerity, preoccupa Putin, fa stramazzare il Venezuela, e aggiungendovi una banale considerazione: il milione di barili al giorno che verranno messi sul mercato dagli ayatollah accrescerà la tendenza ribassista e sottrarrà quote di mercato alla concorrenza.
E’ un coacervo di contraddizioni, la repubblica islamica, un Paese diviso in fazioni, moderati, riformisti e conservatori, falchi e colombe, pragmatici e opportunisti, tanto che si dovrebbe parlare degli Iran, e non tanto dell’Iran
L’Iran come spauracchio internazionale, sponsor del terrore, e l’Iran come grande, se non principale, eredità della politica estera di Obama, come grande scommessa avviata dalla celebre “mano tesa” del 2009, come investimento per il cui successo il presidente americano sacrificò al proprio destino l’Onda Verde, il movimento spontaneo nato contro i brogli con cui, lo stesso anno, fu rieletto alla presidenza Mahmoud Ahmadinejad.
L’Iran secondo solo alla Cina per esecuzioni capitali, e l’Iran della gioventù che si trucca all’occidentale, segue la moda occidentale, ascolta musica occidentale. L’Iran pubblico, quello degli ayatollah, che grida “morte all’America” e condanna con un processo fantasma Jason Rezaian, il corrispondente del Washington Post, e l’Iran privato, quello dei festini in cui ventenni e trentenni fumano erba e assumono anfetamine in grandi quantità (“Breaking Bad in Tehran”, titolava qualche tempo fa un pezzo del Guardian). L’Iran dei poliziotti zelanti, che misurano la lunghezza e la correttezza del velo, e l‘Iran dei transgender e delle operazioni di cambio sesso, pagate in gran parte dallo Stato (Teheran è seconda al mondo per interventi di questo tipo, anche se le organizzazioni per i diritti umani dicono che la chirurgia serve soprattutto a salvare la vita, ma non l’onore, in un Paese in cui l’omosessualità è reato).E’ un coacervo di contraddizioni, la repubblica islamica, un Paese diviso in fazioni, moderati, riformisti e conservatori, falchi e colombe, pragmatici e opportunisti, tanto che si dovrebbe parlare degli Iran, e non tanto dell’Iran. Un equilibrio di potere spesso difficile da cogliere in Occidente, un misto di democrazia, autoritarismo e totalitarismo, scelte fatte dal basso e decisioni imposte dall’alto, veti e divieti. Al centro del sistema c’è sicuramente la Guida Suprema – attualmente l’ayatollah Khamenei – una carica vitalizia ma elettiva. Il 26 febbraio ci saranno le elezioni e, oltre che per il Parlamento, dove si verificherà la forza dei moderati del presidente Rohani, dopo l’accordo sul nucleare, si voterà anche per l’assemblea degli esperti: 88 chierici, eletti per otto anni, incaricati, tra l’altro, di nominare la Guida. Khamenei è anziano e malato, per cui è molto probabile che sarà questa assemblea a scegliere il prossimo grande ayatollah (nota a margine, l’ex presidente Rafsanjani ha proposto il passaggio a una leadership collettiva al posto della Guida, segno che anche il dibattito istituzionale non è più un tabù).
Sarà l’anno dell’Iran, non tanto e non solo per il ciclo elettorale. Sarà l’anno dell’Iran perché rientrerà nel consesso internazionale un Paese di 77 milioni di abitanti (popolazione seconda solo a quella dell’Egitto, in Medio Oriente), con un età media inferiore ai trent’anni e un buon grado grado di istruzione. Uno Stato che possiede le seconde maggiori riserve di gas del pianeta e le quarte di petrolio. Una cultura millenaria, in cui convivono Islam, nella sua versione sciita, e zoroastrismo, e che è oscurantista solo se ci si focalizza su certi cliché. Perché la Teheran che sfrutta i rifugiati afghani, mandandoli in Siria a combattere in difesa di Assad, che, attraverso i pasdaran, i guardiani della rivoluzione, identifica nell’Occidente il Male, la corruzione, l’impurità, è la stessa Teheran che con la cultura occidentale cerca una sponda dialettica. La Fiera del Libro, organizzata a maggio nella capitale iraniana, ha avuto cinque milioni di visitatori. L’industria cinematografica è vivacissima e fa incetta di premi internazionali. Certo, deve fare i conti con la censura e la mano forte del regime – Jafar Panahi, critico degli ayatollah, Orso d’Oro a Berlino, non ha potuto ritirare il premio causa divieto d’espatrio – ma indica una vitalità sconosciuta, ad esempio, nelle monarchie sunnite.
Una cultura millenaria, in cui convivono Islam, nella sua versione sciita, e zoroastrismo, e che è oscurantista solo se ci si focalizza su certi cliché
La diplomazia culturale sarà importante ed offrirà opportunità anche per l’Italia, come ha intuito l’ex ministro Massimo Bray, oggi tornato alla guida dell’Istituto Treccani. Teheran punta molto sul turismo, nel momento in cui si apre al mondo offrendo ben diciannove siti catalogati come patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Le competenze italiane – in ambito archeologico, ad esempio – potranno dare vita ad una serie di scambi. Ma ovviamente tutte le attenzioni, a partire dall’Implementation Day, saranno puntate sul business industriale, gas e petrolio in primo luogo.
Recentemente il ministro del Petrolio Bijan Zanganeh ha presentato ai big del settore un nuovo regime di contratti, volto a superare il vecchio modello buy-back e ad incentivare gli investimenti diretti stranieri. L’Eni è in prima linea in questa corsa e gode di una rendita di posizione, precedente all’era delle sanzioni, che l’amministratore delegato Descalzi intende accrescere. Ma le opportunità si estenderanno anche ad altri settori: le costruzioni – l’Iran ha bisogno di infrastrutture, ponti, autostrade, porti – l’industria automobilistica, quella aeronautica, persino il settore alimentare e quello biomedico.
I rischi del nuovo corso non sono pochi. L’apertura all’Occidente, le (eventuali) privatizzazioni, la liberalizzazione dell’economia, significheranno lo scardinamento di interessi costituiti, in particolare quelli dei conservatori e dei pasdaran, che non a caso in questi mesi stanno cercando di boicottare l’accordo, alzando i livelli della tensione, e che difficilmente alzeranno bandiera bianca.
Sarà l’anno dell’Iran, però, e si approfondiranno le contraddizioni di un Paese che accoglie Kabooki Fried Chicken, Pizza Hat e Burger House, versione tarocca dei marchi occidentali, che censura Facebook e Twitter ma permette un largo uso di Instagram, diffusissimo tra i giovani, come Ahmed Khomeini, figlio di Hassan, 180.000 follower sul social. Le foto con le Nike ai piedi di Ahmed, contraltare alla Morte all’America di Khamenei, sono già un programma politico, il segno di una distanza tra il potere e la società profonda. Chissà se proprio Hassan Khomeini, chierico riformista, allergico alle interferenze dei militari della vita pubblica, riuscirà, un giorno, a colmarla.