IntersessualitàSulla via per il terzo sesso

In Italia ogni 5mila parti nascono bambini affetti da disordini della differenziazione sessuale. Qualcuno li chiama ancora ermafroditi, ma oggi le associazioni si battono contro gli interventi chirurgici precoci e affermano l’identità “intersex”

Ragazze bellissime con un corpo femminile e un corredo genetico maschile. O ragazzi con entrambi gli organi genitali. La storia li ha etichettati come ermafroditi, come il figlio di Ermes e Afrodite che si era unito alla ninfa Salmace. Poi si è preferito usare il termine intersex. Ma il rischio di fare confusione con le persone transgender ha portato la comunità scientifica a parlare di “disordini della differenziazione sessuale” (dsd).

Si stima che in Italia nasca un bambino affetto da dsd ogni 5mila parti. Ma un registro nazionale, come l’I-DSD Registry di Glasgow, non esiste. Nel mondo si parla di una incidenza intorno al 2 per cento. E se fino a qualche decennio fa si trattava di una “malformazione” da tenere nascosta e negli ospedali si decideva il sesso definitivo sulla base di parametri approssimativi come “la lunghezza del pene”, oggi esistono in tutto il mondo associazioni che affermano l’identità intersex contro le decisioni a volte troppo frettolose della medicina. Dopo le operazioni, spesso seguono cure ormonali a partire dalla pubertà. E in molti casi l’intervento chirurgico può portare alla perdita del piacere sessuale.

Dalla prima metà degli anni Novanta, dopo la pubblicazione di un articolo di Anne Fausto Sterling, docente di biologia e studi di genere alla Brown University, sono emerse via via le testimonianze degli effetti della chirurgia precoce. Da qui è nato un movimento che ancora oggi propone di modificare i protocolli medici e interrompere gli interventi chirurgici non consensuali. Le organizzazioni più note a livello internazionale oggi sono la Intersex Society of North America e l’australiana Organisation Intersex international (Oii).

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In Italia gli attivisti intersex sono scesi in piazza la prima volta a Milano nel settembre 2013, in occasione del congresso mondiale di endocrinologia pediatrica. Due mesi dopo in Germania verrà riconosciuto legalmente il “terzo genere” per i bambini che presentano alla nascita organi genitali non esclusivamente maschili o femminili. Fino ad allora solo l’Australia aveva approvato una norma simile.

Lo slogan delle associazioni, allora come oggi, è “No alle mutilazioni genitali”. Sostenuti anche da una dichiarazione del 2011 della Commissione delle Nazioni Unite contro la tortura, che raccomanda di evitare interventi chirurgici non necessari sui genitali atipici, e una del 2010 del Comitato nazionale di bioetica che invita a posticipare l’intervento. Quello che gli attivisti contestano sono gli interventi chirurgici correttivi finalizzati a definire alla nascita il genere dei bambini, sostenendo che si debba aspettare l’età matura per avere il consenso dei diretti interessati. Anche perché, dicono, molto spesso si deve tornare sotto i ferri più avanti per adattare i genitali a una vita sessuale adulta. Tanto vale aspettare per decidere.

«Quello che oggi facciamo», spiega Giacinto Marrocco, chirurgo pediatrico dell’ospedale San Camillo di Roma e uno dei massimi esperti di dsd in Italia, «è adattare i genitali esterni all’anatomia prevalente del bambino. La decisione viene presa all’interno di team multidisciplinari e tramite il confronto con i genitori». Rispetto agli Settanta, «quando si sceglieva il sesso solo in base alla lunghezza del pene, abbiamo fatto passi da gigante. Oggi abbiamo a disposizione le indagini genetiche. E, quando possiamo, attendiamo lo sviluppo del bambino».

Certo, ammette il medico, «la decisione non è sempre semplice e non sempre ci sono elementi per decidere quale sarà l’identità sessuale futura. In questi casi si aspetta. Ma in altre circostanze l’intervento serve a evitare situazioni di ambiguità che causeranno forti stress dal punto di vista psicologico. Concordo con il principio all’autodeterminazione che affermano le associazioni, ma nella maggior parte dei casi le persone operate stanno bene e sono felici per quello che è stato fatto».

Quello che gli attivisti contestano sono gli interventi chirurgici correttivi finalizzati a definire alla nascita il genere dei bambini, sostenendo che si debba aspettare l’età matura per avere il consenso dei diretti interessati

Le tipologie dei disordini della differenziazione sessuale sono diverse. Ogni caso va considerato a sé. «Le variazioni sono numerosissime», spiegano dall’associazione Intersexioni. «Non si tratta sempre di avere organi sessuali atipici, in alcuni casi non c’è nessuna atipicità esteriore visibile».

Nel 70% dei casi si tratta di quella che viene chiamata sindrome surreno-genitale. «Sono bambine interessate da una mascolinizzazione dei genitali esterni, in cui il clitoride ipertrofico ha quasi la forma di un pene», spiega Marrocco. «In questi casi si interviene riducendo le dimensioni del clitoride e ripristinando la normale anatomia della vagina». Ci sono poi i bambini che nascono con cromosomi maschili, ma hanno una ipovirilizzazione. «Significa che l’apparato genitale non è completamente maschile, ma è una via di mezzo. In questi casi non c’è una identificazione immediata, per cui l’attribuzione viene sospesa», spiega il chirurgo. I casi più rari sono quelli che nell’immaginario collettivo sono “ermafroditi”: «I genitali esterni possono essere maschili o femminili, ma l’individuo al suo interno ha sia le gonadi maschili sia quelle femminili».

In base ai dati riportati dall’associazione Intersexioni, gli interventi di chirurgia genitale “correttiva” vengono eseguiti su uno-due bambini ogni mille nati vivi. Mentre nell’88%, quando tramite l’amniocentesi ci si accorge del disordine sessuale del feto, si ricorre all’interruzione di gravidanza.

Non sempre però la diagnosi avviene alla nascita. «Ci sono casi di cui si accorge di anomalia in età adolescenziale», dice Marrocco, «quando le ragazze non hanno la prima mestruazione». È quella che si chiama sindrome di Morris, con un caso ogni 1.500/1.600 nascite. «Un individuo ha caratteristiche fenotipiche completamente femminili, ma internamente al posto delle ovaie ha i testicoli, che producono testosterone, ma i tessuti periferici sono insensibili». Viene chiamata anche sindrome delle belle donne. «Sono molto spesso delle ragazze bellissime», spiega il chirurgo, «perché l‘insensibilità al testosterone non fa venire i brufoli e i peli. Ma non potranno avere figli».

«Rispetto agli Settanta, quando si sceglieva il sesso solo in base alla lunghezza del pene, abbiamo fatto passi da gigante. Oggi abbiamo a disposizione le indagini genetiche. E, quando possiamo, attendiamo lo sviluppo del bambino»

In rete The Interface Project sta raccogliendo le storie delle persone intersex in giro per il mondo. Tra di loro c’è anche Claudia Balsamo, 54 anni, vicepresidente dell’Aisia (Associazione italiana sindrome insensibilità androgeni), una delle principali realtà associative italiane. «La prima volta che ho avuto un’idea chiara di quello che mi era successo è stato quando avevo 26 anni», racconta. «Sono andata dal ginecologo a chiedergli perché non riuscivo ad avere rapporti sessuali, lui mi disse con molta sincerità e semplicità che mi avevano raccontato un sacco di fesserie. Io non avevo avuto l’asportazione delle gonadi perché avevo le cisti ovariche maligne. Il mio era un caso di insensibilità agli androgeni, o sindrome di Morris. Inoltre non potevo avere rapporti sessuali perché la mia vagina era di un centimetro». Così, «con l’aiuto del ginecologo ho cominciato ad allargare la vagina». E oggi si batte contro gli interventi precoci. Ai genitori dice: «Non abbiate fretta a “riparare” subito vostro figlio. Vostro figlio non è danneggiato. Non è imperfetto. Vostro figlio è vostro figlio. Può essere perfetto. Ma non operatelo subito. Lasciategli il tempo di decidere».

Su sito dell’Aisia si trovano le storie di figli e genitori alle prese con il terzo sesso. Dalla mamma di Chiara, che racconta come tutto sia nato da una comune operazione di ernia, alla mamma di Marco, che parla del suo piccolo “bambino femminilizzato”. Uno dei primi a parlarne in Italia è stato Lorenzo Santoro con un lungo articolo pubblicato nel luglio 2013 sul Manifesto in cui racconta l’esperienza traumatica di rimozione del seno femminile, sviluppato durante la pubertà a causa della sindrome di Klinefelter, e degli anni di analisi per riprendersi dall’intervento

«Oggi di certo rispetto al passato si opera di meno e si tende a essere meno invasivi possibile», dice Marrocco. «Ma bisogna considerare anche una variante importante, che è la complicazione etnica. Per una famiglia musulmana, una bambina nata con il pene al posto del clitoride è una cosa insopportabile. Si crea un rifiuto dei genitori verso il figlio. Ci sono alcune forme che è meglio operare quando sono più grandi. E invece mi è capitato di correggere quel corpo come bambina in una circostanza che altrimenti non avrei mai operato».

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