Non è esattamente la stessa Hollywood di quel capolavorone di Barton Fink con cui i Coen vinsero una Palma d’Oro a Cannes nel 1991, ma solo perché questo Hail, Caesar — Ave, Cesare! in italiano — è più luminoso e più divertito.
Questa volta ad Hollywood sono primi anni Cinquanta e al centro della storia non c’è uno sceneggiatore, ma un fixer di nome Eddie Mannix. Un fixer è uno di quelli i cui nomi non appaiono sulle locandine, ma senza il cui lavoro incessante i film non si fanno. Mannix risolve i problemi. È una variazione del Mister Wolf di Pulp Fiction, ma senza cervelli di spacciatori negri sui sedili posteriori di Chevrolet Nova del 1974.
Mannix raccatta di notte attrici in casa di fotografi corrompendo poliziotti ed evitando scoop; risolve improbabili rapimenti di star da parte di altrettanto improbabili frange ultracomuniste del sindacato degli scrittori; cerca potenziali mariti per ripulire agli occhi del pubblico benpensante dell’America anni Cinquanta l’immagine di attrici fuori di testa con figli a carico ; fa i conti con registi iperesigenti di drama noiosissimi che si lamentano di attori che recitano da cani; o ancora, ascolta pazientemente la consulenza di un rabbino, un ortodosso, un prete cattolico e uno protestante per capire se la figura di Cristo che emerge da un film sull’antica Roma potrebbe urtare sensibilità di qualcuno.
Se per un momento le risate in sala si interrompessero magicamente, probabilmente si sentirebbero risuonare quelle degli attori dal fondo dello schermo. E quelle dei fratelli Coen, dal fondo della camera da presa
Sul palcoscenico allestito dai fratelli Coen, Mannix non è solo. Al suo fianco sfilano tutte le turbe dell’America anni Cinquanta: dal moralismo dei baciapile al comunismo dei topi da salotto, quello voluto dai Coen è un palco per freak, in cui tutti i personaggi sono macchiette, ridicoli stereotipi, caricature di se stessi. E funziona tutto benissimo.
Eddie Mannix non è un eroe senza macchia. È un peccatore che circa ogni 24 ore si va a confessare. Ma il peccato che toglie il sonno a Mannix non c’entra nulla con il fatto che per lavoro corrompe poliziotti, paga riscatti, copre adulteri e ricatta registi. È tutto molto più ridicolo, perché il peccato di Mannix è il deludere la moglie, è l’averle promesso di smettere di fumare anche se di tanto in tanto scrocca ancora una sigaretta.
Un fittissimo percorso da citazioni, controcitazioni, ammicchi e controammicchi che costruiscono un film fuori dal film fatto di referenze alla realtà: dai nomi di Mannix e del suo capo — reali — alle pose degli attori nei singoli film di secondo livello che appaiono nella pellicola, attraverso i quali i Coen si divertono a prendere in giro gli stili hanno fatto grande Hollywood, e che quindi hanno fatto grandi loro che in quegli anni erano bambini. Sono il noir, il western, il musical, il drama, tutti generi che i Coen usano per mandar tutto in commedia.
La leggerezza si fa, non si spiega. E Hail, Caesar è esattamente questo: un film che fa ridere un sacco, che prende per il culo tutto ciò che tocca, cinema, religione, convenzioni sociali, storia degli Stati Uniti, ideologie, generi cinematografici. Tutto. Ed è tanto efficace che, se per un momento le risate in sala si interrompessero magicamente, probabilmente si sentirebbero risuonare quelle degli attori dal fondo dello schermo. E quelle dei fratelli Coen, dal fondo della camera da presa.