Se ci fosse in Potsdamer Platz un allibratore cinese, ci sarebbe da scommettere su un premio per “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi, unico italiano in gara alla Berlinale. Non solo per l’innegabile qualità formale del suo film, ma anche perché affronta uno dei temi più scottanti del presente europeo: l’immigrazione di massa dall’Africa delle guerre, scegliendo come ambientazione l’avamposto italiano di Lampedusa, dove nel corso degli anni sono transitate oltre 400 mila persone in fuga dalle loro terre.
Rosi è senza dubbio il regista di documentari italiano più affermato internazionalmente, forte di un Leone d’oro nel 2013 con l’eccellente “Sacro Gra” e di un paio di capolavori del livello di “Below Sea Level” e “El sicario” (titolo, ambientazione e molto altro ripresi nel “Sicario” di Villeneuve con Benicio Del Toro, del tutto inferiore). Come già in “Sacro Gra”, Rosi sperimenta una evoluzione di stile che contamina la registrazione della realtà con influssi di commedia, piuttosto difficili da gestire nel formato documentario, soprattutto su un tema così delicato. Il tentativo è riuscito, in particolare nelle parti centrate sulla vita di un bambino di Lampedusa, che ricorda il miglior Luigi Comencini, regista di bambini per eccellenza.
“Fuocoammare” non risparmia l’affondo sulla brutalità del destino dei migranti, raccontando con straordinarie riprese sui mezzi militari e di soccorso le fasi della individuazione dei barconi, del salvataggio di vite umane e purtroppo anche della constatazione delle morti. È il resoconto di un inferno (il fuoco) che avviene in mare aperto sui nostri confini d’acqua, giocato sulla doppia corsia di chi viaggia e di chi resta, uniti da un unico destino di inquietudine. C’è chi vi ha visto un po’ di furberia: non sfugge che il rischio ricattattorio per il sentimento dello spettatore su questi argomenti sia elevatissimo, ma nemmeno si può equivocare sul profondo senso morale di un regista che, come pochi altri, ha il coraggio di lavorare su questioni accuratamente evitate (per non dire improbabilmente toccate, come in “A bigger splash” di Guadagnino).
Argomento scottantissimo su cui in Italia sembra quasi impossibile immaginare di lavorare per un prodotto mainstream, è quello alla base di “24 weeks” della giovane regista tedesca Anne Zohra Berrached: si parla infatti di un aborto, deciso perché il bambino avrebbe innumerevoli problemi di salute da affrontare. Privo di particolari colpi d’ala stilistici, il film affronta però senza infingimenti il travaglio morale che questa scelta comporta sulla coppia e senza manicheismi è capace di interrogare la coscienza dello spettatore: sarà forse materia di discussioni accese, il che è senza dubbio un merito.
Restando in Europa, dalla Repubblica Ceca, arrivano due film che accendono l’attenzione sulla cinematografia di Praga: si tratta di “We are never alone” di Petr Vaclav nella sezione Forum e soprattutto “I, Olga Hepnarova” di Tomas Weinreb e Petr Kadza nella sezione Panorama. Quest’ultimo, tratto da una storia vera, ricorda il bellissimo “Ida” del polacco Pawlikowski, vincitore del premio Oscar l’anno scorso come miglior film straniero: simile bianco e nero, ambientazione d’epoca sovietica, fuoco su un personaggio femminile di giovane età, che cattura subito già col titolo. Siamo nei primi Settanta, Olga è una giovane ragazza parecchio bullizzata, scopre la sua omosessualità, il che moltiplica la sua difficoltà a integrarsi, fino a che perde ogni forma di autocontrollo e decide premeditatamente di investire con un pullman alcune persone ferme su un marciapiedi: sarà una strage, e lei sarà l’ultima donna condannata a morte della Cecoslovacchia.
Il personaggio di Olga ha una ricchezza di sfumature piuttosto rara da trovarsi e il suo tragitto, disperato e non privo di eccitazione, nell’isolamento sociale sempre più stringente è pienamente riuscito. L’altro film ceco, centrato sull’oggi di una provincia piuttosto desolata quando non annichilita, è un intreccio di storie che convergono sul tema del disadattamento e della mancata realizzazione (economica, sociale, sentimentale). Qualche pecca e molte intuizioni, soprattutto sul lato del grottesco.
Un’amara commedia sentimentale viene dalla Tunisia e si intitola “Hedi” di Mohamed Ben Attia, in concorso: vicino alle nozze, un ragazzo piuttosto schiavizzato dalla famiglia incontra un’altra ragazza per cui perde la testa. È vero che siamo nel laico paese nordafricano, ma la storia non è così scontata in quella società e si avvale di una delle scoperte più belle finora del festival: la giovane attrice Rym Ben Messaoud.
Non ha del tutto convinto uno dei film più attesi, “Midnight Special” del 37enne già affermato regista statunitense Jeff Nichols: siamo dalle parti del suo capolavoro “Take shelter”, un’oscura minaccia sovrannaturale minaccia una famiglia del Sud. Tutto gira intorno al misterioso bambino, un incrocio tra un fanciullo spielberghiano e l’infante prodigioso del “Sesto senso”: l’evolvere della trama spiegherà esattamente la sua natura. È vero che in molti punti tira aria di déjà-vu e che Nichols se la cava qui assai meglio come regista che come sceneggiatore, ma è altrettanto indiscutibile la potenza visionaria di molte scene, alcune davvero memorabili. Sì, ci si attendeva di più, ma parlare di delusione suona come un’ingiustizia verso il talento di Nichols.
Saltiamo ancora un continente e finiamo con dall’altra parte del mondo, per la precisione in Nuova Zelanda. Da cui arriva “Mahana” di Lee Tamahori. Alle volte, da spettatori festivalieri, si insegue il miraggio di formalismi sovente spinti all’inverosimile, di costruzioni linguistiche fondate sull’azzardo, poi magari capita di essere sorpresi da opere senza alcun grillo per la testa, medie per impostazione e fattura, ma con una forza tutta di carattere: potere della forma romanzo, cui deve tutto questo film, nella specifica categoria del robusto racconto familiare, con un finale dipinto in tinta melodrammatica che è il meglio della pellicola: un patriarca governa la sua vasta famiglia, ma i suoi metodi non vengono più accettati: sarà suo nipote, in fondo il suo preferito per quanto allontanato, a costruire su basi nuove la convivenza, sciogliendo un tragico nodo sepolto nel passato. Niente infamia e qualche lode per questa storia dei remoti Antipodi rurali.