Immaginate un incontro, qualche anno fa, tra i rappresentanti di Blockbuster e i gestori di una piattaforma di BitTorrent. Da una parte una catena di negozi fisici che vende prodotti fisici, i dvd, e dall’altra un sistema di scambio dati peer to peer. Da una parte gli accordi con le case cinematografiche, dall’altra l’indifferenza per il diritto d’autore. Da una parte una realtà fallita, con innumerevoli negozi chiusi e personale mandato a casa, e dall’altra una delle realtà che hanno cambiato il modo di fruire di film, serie tv e musica. Che cosa avrebbero potuto trovare in comune i due mondi? Una qualche forma di accordo avrebbe potuto salvare il vecchio mondo fisico e traghettarlo nella nuova era? È la domanda che ci si pone oggi, quando nel mondo sono in corso contatti tra due galassie lontanissime: le banche e gli esponenti del mondo Bitcoin e della blockchain, ossia della tecnologia che sta alla base dei Bitcoin e che promette applicazioni dirompenti in molti settori. Si tratta essenzialmente di sistemi distribuiti di verifica di informazioni, assicurati dalla messa in comune di hardware di numerosissimi utenti. Potenzialmente potrebbero automatizzare tutto quello che richiede una certificazione, dai passaggi di proprietà ai contratti. Questi incontri stanno cominciando ad avvenire anche in Italia, e non sono chiacchiere nei convegni. Sono accordi economici, che si basano su soldi (delle banche e di altri istituti finanziari) in cambio di informazioni. La posta in gioco è alta: per le banche si va dal trovare il sacro graal per tagliare i costi di funzionamento alla loro stessa sopravvivenza.
«Puoi venire domani, ma prima delle 16. A quell’ora arrivano i partner di Intesa Sanpaolo». Al telefono è Giacomo Zucco, un imprenditore dai tratti geniali. Con poca sregolatezza e molto coraggio. Classe 1983, studi in fisica, nel pieno di una carriera nella società di consulenza Accenture lascia tutto e fonda una serie di startup. «Mi sembrava tutto vecchio e tutto troppo specializzato», spiega. Negli anni segue tutti gli hype del momento, dalle stampanti 3D ai chip Nfc. Poi decide di concentrare gli sforzi sul mondo dei Bitcoin, la moneta virtuale nata nel 2009 che ha oscillato nella considerazione dell’opinione pubblica con variazioni paragonabili solo al valore degli stessi bitcoin: da pochi centesimi di dollaro a oltre mille, fino all’attuale valore di circa 420 dollari. Anche in questo caso le startup si moltiplicano, come una “farm” per estrarre bitcoin in Svizzera. Che significa? Ci arriveremo. Un anno fa contribuisce a creare una sorta di associazione di categoria, Assob.it, che raccoglie sì esponenti delle varie startup del mondo Bitcoin ma anche del mondo della finanza, come Banca Sella, e professori universitari. Il link non è banale, perché è una premessa di quello che succederà dopo. Nel frattempo Zucco fonda BlockchainLab, un misto di centro di ricerca e acceleratore di startup, con sede a Milano, nel centro di co-working e spazi di lavoro innovativi di via Copernico. Con sé, in uffici a vetrate nuovi di pacca, porta una ventina di ragazzi, tra cui «tre delle 200 persone in tutto il mondo che sanno veramente padroneggiare i bitcoin». Negli spazi ci sono un altro fisico, una musicologa, un ingegnere informatico, un laureato in economia. C’è anche Franco Cimatti, 31 anni, noto come Hostfat, presidente di Bitcoin foundation Italia e primo italiano ad avere “minato” bitcoin, nel 2010. Felpa Decathlon, ritrosia a parlare con la stampa, si dice che abbia accumulato una piccola fortuna (la cui entità non è nota) nelle fasi iniziali del fenomeno.
Una accordo con gli operatori digitali avrebbe salvato una società come Blockbuster? È la domanda che ci si pone oggi, quando nel mondo sono in corso contatti tra le banche e gli esponenti del mondo Bitcoin e delle blockchain. Ossia della tecnologia alla base dei Bitcoin e che promette applicazioni dirompenti in molti settori
È appunto BlockchainLab a intavolare i rapporti con gli istituti finanziari. Ha cominciato Azimut, assieme alla sua partecipata Siamo Soci, uno dei primi portali di crowdfunding in Italia, che condivide alcuni spazi con BlockchainLab. Ha continuato Intesa Sanpaolo. E sono in pista di arrivo altri due accordi, con una società di consulenza e revisione e con un gigante dei sistemi di pagamento. La natura di questi accordi è peculiare: un patto tra avversari. Anzi, tra nemici. «È una mossa tattica aperta da parte di entrambi i fronti – dice Zucco in una sala riunione degli uffici, giacca e camicia e alle spalle una lavagna piena di formule e diagrammi -. Il mondo bancario tradizionale non conosce bene le armi che il mondo degli smanettoni di Bitcoin vuole usare per disintermediarlo», o distruggerlo. Lo scopo del patto è proprio ottenere informazioni su queste armi. «L’establishment finanziario è interessato e spaventato. Sa che le nuove tecnologie delle blockchain possono danneggiarlo e pensa di usarle a suo vantaggio. In realtà in quell’ambiente molti non hanno idea delle cose di cui si parla». Per padroneggiare questi meccanismi, aggiunge, servono conoscenze in almeno tre campi: sistemi distribuiti, crittografia e teoria dei giochi. Oggi una piena conoscenza sui tre fronti è appannaggio, dice Zucco, di non più di 200 persone in tutto il mondo. «Tra due anni sicuramente cresceranno. Per ora cercano esperti nelle università ma non li trovano, le grandi società di consulenza si fanno strapagare per riportare articoli di stampa. Solo chi è nel mondo delle blockchain ha le informazioni che servono loro».
Per padroneggiare i meccanismi delle blockchain servono conoscenze in almeno tre campi: sistemi distribuiti, crittografia e teoria dei giochi. Oggi una piena conoscenza sui tre fronti è appannaggio, dice Zucco, di non più di 200 persone in tutto il mondo
Le banche potrebbero assumere queste persone, ma c’è un problema: la community di bitcoiner è quanto di più antisistema si possa trovare in circolazione. Vicina al mondo degli hacker, racchiude persone che vanno dai righ-libertarian, anarco-capitalisti, ai left-libertarian, vicini al mondo di Anonymous. Altri punti di riferimento culturali sono il Cypherpunk, i “gold-bugs” austriaci e il movimento di Occupy Wall Street. Tra le parole d’ordine c’è la “permissionless innovation”: «se ho un’idea non voglio passare anni a passare tra istituzioni, avvocati, notai e sindacati», dice Zucco. Un’altra parola chiave è “incentivo” (da qui il legame con la teoria dei giochi): viene incentivata la messa a disposizione di hardware per lo scambio di informazioni (remunerata attraverso la produzione e distribuzione di bitcoin, che in questo modo vengono “minati”), e viene incentivata la ricerca di soluzioni a problemi. Quanto più valore si riesce a creare con le soluzioni, tanto più va remunerato. Il tutto avviene in un ambiente “open source”: i codici sorgenti dei software non vengono protetti da diritto d’autore, ma “forkati” e migliorati da chi ne è capace. In generale c’è un atteggiamento positivo verso l’accumulazione di denaro, basta che non sia preso ad altri.
Zucco, in questa galassia, si pone tra i right libertarian, tanto che è tra i portavoce del Tea Party italiano: vede il problema non nel sistema bancario in sé, ma nel fatto che le banche siano diventate un “sistema statalizzato e monopolistico”. Qualcosa da abbattere, con molta più soddisfazione di un Blockbuster qualunque. Però il patto arriva, perché entrambe le parti hanno da guadagnarci. «È uno strano rapporto, di reciproca arroganza pacifica: le banche pensano “li compriamo”, gli hacker pensano che con i loro soldi le disintermedieranno ancora meglio».
La community di bitcoiner è quanto di più antisistema in circolazione. Vicina al mondo degli hacker, racchiude dai righ-libertarian, anarco-capitalisti, ai left-libertarian, vicini al mondo di Anonymous. Altri punti di riferimento culturali sono il Cypherpunk e il movimento di Occupy Wall Street
Ma la strategia di BlockchainLab non si limita a facilitare questo “patto”, mettendo in comunicazione mondo finanziario e hacker. È in più fasi, ma l’esito finale è la costituzione di un incubatore di startup dedicate alla blockchain che funga anche da centro di ricerca altamente specializzato, con il supporto del mondo finanziario; in cambio ci sarà un’estrazione di informazioni, che saranno girate alle stesse banche, «senza indorare la pillola». Il veicolo di investimento invece partirà a marzo 2016; avrà un investimento di 5 milioni di euro e sarà costruito da Siamo Soci. Ci sarà un finanziamento di 100mila euro per ognuno dei 45 round previsti, per un totale di 4,5 milioni di euro (il resto sono spese). Potrebbero quindi esserci fino a 45 startup (realisticamente meno, con più finanziamenti per le più promettenti) incubate, con l’accordo di portare nella sede di BlockchainLab almeno un esperto di blockchain per almeno un anno. Accumulare materia grigia e competenze, oggi, è il primo obiettivo. «L’idea è di creare un ecosistema», dice Zucco.
Questo “patto tra nemici” è simile a un esperimento simile che in Canada sta portando avanti la Bitcoin Embassy di Montreal. Ma non è l’unico modello. Ce ne sono altri che sono descritti come una sorta di patto col diavolo, “operazioni di sistema” che hanno da una parte consorzi di istituzioni finanziarie e dall’altra esponenti del mondo Bitcoin pagati per la loro consulenza. Una delle più note è Digital Asset Holding, guidata da Blythe Masters, pioniera dei credit default swap ed ex enfant prodige di Jp Morgan Chase, lasciata nel 2014 dopo 27 anni in seguito ad accuse di malversazione. Tra gli investitori di Digital Asset Holding ci sono J.P. Morgan, Goldman Sachs, Bnp Paribas, Abn Ambro, Accenture, Santander Innoventures e Citi. Ancora più nota è R3Cev, che riunisce in un consorzio 42 banche tra le più importanti al mondo, tra cui Goldman Sachs, JPMorgan e Credit Suisse, che «stanno pianificando di sviluppare standard comuni per la tecnologia della blockchain in uno sforzo di allargare il suo uso tra i servizi finanziari». Altre iniziative sono più indipendenti, come Blockstream, che ha ottenuto finanziamenti da società come Pwc ma che è presieduta da Adam Back, esponente del cripto-anarchismo anni Novanta.
Il patto tra banche e BlockchainLab prevede la costituzione di un incubatore di startup dedicate alla blockchain, con il supporto del mondo bancario; in cambio ci sarà un’estrazione di informazioni, che saranno girate alle stesse banche. Il veicolo partirà a marzo, con un investimento di 5 milioni di euro
Zucco vede tre modi in cui si possono configurare i rapporti tra mondo della finanza e delle blockchain. Il primo (A) è quello che è un uso improprio del nome blockchain e un semplice efficientamento dei database delle istituzioni finanziarie: «Può essere efficace, ma è disonesto chiamarlo blockchain». Il secondo (B) è il tentativo di far integrare i database e la blockchain: «È quello che stiamo sperimentando noi con Intesa e Azimut e in senso più generale; forse è presto ma è un modo di procedere onesto». Il terzo (C) è l’idea di usare la block chain come database interno: «E questo è del tutto inutile e improprio: appesantisce la struttura senza il vantaggio della blockchain, cioè la verifica indipendente». È come, aggiunge, se un treno e la sua locomotiva fossero trainati da cavalli. Tra gli esempi sopra riportati, R3Cev sarebbe un modello A venduto come un C; Digital Asset Hondings un modello misto A e B; Blockstream un modello B.
Quello che è importante sottolineare, spiega il fondatore di BlockchainLab, è che «in un’era post-Bitcoin nuovi mediatori rispunteranno». Saranno però «minori, più contendibili, gestiti da nuovi player». Per capirci di più, basta pensare ai film. Blockbuster è morto, ma accanto ai BitTorrent sono apparsi nuovi operatori come Netflix (che per la verità si è reinventata rispetto al passato “fisico”). «Si paga meno e si paga perché è comodo». Potrebbe succedere così anche in campo finanziario. «La creazione di nuovi intermediari è un concetto che non è ben percepito dall’ambiente dei Bitcoin – riconosce Zucco -. Molti si immaginano un mondo di hacker, ma questo non è realistico». Tanto più in società anagraficamente avanzate come l’Italia. Il potenziale è alto e uno dei pionieri del prestito peer-to-peer italiano, Angelo Rindone, predige: «Laddove c’è bisogno di realtà certificanti, spazio per la blockchain, dal turismo allo scambio di denaro al crowdfunding».
In un’era post-Bitcoin nuovi mediatori rispunteranno. Saranno però minori, più contendibili, gestiti da nuovi player. Per capirci di più, basta pensare ai film. Blockbuster è morto, ma accanto ai BitTorrent sono apparsi nuovi operatori come Netflix
Sul fatto che finanza e mondo Bitcoin possano trovare una convergenza si mostra scettico Luca Fantacci, docente lecturer del Dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico all’Università Bocconi e autore con Massimo Amato di “Per un pugno di bitcoin. Rischi e opportunità delle monete virtuali” (Egea, 2016, 190 pagine). «Dallo scorso autunno si è intensificato l’interesse del mondo finanziario verso le blockchain, con attività di ricerca e investimenti. Di fronte al rischio concreto che una disintermediazione danneggi il mondo bancario, vari consorzi sono andati alla ricerca di efficienza nei sistemi di pagamenti e nei sistemi di clearing per lo scambio di asset».
Tuttavia, per l’esperto di sistemi monetari, l’entusiasmo di alcuni banchieri (come i vertici di Che Banca!) va visto come l’interesse per gli investimenti in questo particolare asset class. In pratica «possiamo tradurre questo entusiasmo così: non sappiamo dove trovare rendimenti alti, quindi ci mettiamo sui Bitcoin, che possono diventare la prossima bolla». C’è anche un aspetto che ha a che fare con la creazione di ricchezza fittizia che sarebbe provocata dall’introduzione di Bitcoin nell’economia (il valore è dato dalla loro scarsità, dato che è previsto un raggiungimento di un limite al loro numero). «È una prospettiva che sposa sia l’interesse delle banche in quanto investitori sia quello dei sostenitori del Bitcoin». Una tale creazione di ricchezza fittizia per Fantacci è «una chimera», alla quale però «è stato posto un minimo di credibilità perché a questa logica hanno creduto anche i banchieri centrali con il lancio dei vari Quantitative Easing, a partire dalla Fed di Ben Bernanke». Se invece si parla di banche come gestori privati dei sistemi di pagamenti e di scambio di titoli, «il discorso è completamente diverso: sarà possibile trovare una blockchain non sottoposta al controllo oligopolistico del sistema bancario? Al momento non vedo una risposta affermativa. L’idea che si possa trovare un equilibrio tra gli interessi del mondo bancario e quello del mondo delle blockchain potrebbe essere la somma di due illusioni, che porterebbe a un buco nell’acqua».
L’economista Luca Fantacci: le banche possono vedere i Bitcoin favorevolmente come asset di investimento, rischioso, o per una creazione di ricchezza fittizia. Ma se si parla di banche come gestori di pagamenti e titoli, l’idea che si possa trovare un equilibrio può essere un’illusione da entrambe le parti
C’è un’altra domanda che Fantacci pone, di fronte agli scenari che vedono i Bitcoin in crisi e le blockchain invece come il potenziale dirompente del futuro: potranno le blockchain sopravvivere senza il sistema di incentivi dei bitcoin? «No», risponde a distanza Zucco, che evoca ancora una volta la metafora del treno. «Per ora è come una locomotiva il cui carburante è costituito da bitcoin e che nei vagoni trasporta solo bitcoin. In futuro i vagoni potranno trasportare altro: tutto quello che è risorsa digitale scarsa vede un’utilità nelle blockchain. Ma il carburante rimarrà il bitcoin».
E questo potrebbe essere un problema, perché questa moneta virtuale è molto messa in discussione, per i problemi tecnici di lentezza della trasmissione e per il problema di fiducia di uno strumento che è usato spesso per motivi illegali: vendita di droga e prodotti protetti dal diritto d’autore in particolare. Non qualsiasi cosa, dice Zucco, perché vige una sorta di “illegalità accettata”: si vende ciò che si considera sbagliato vietare. Ci sono però altri casi di pubblicità negativa, come il “criptolocker”: un virus che, se infetta un computer, è in grado di criptare tutti i dati nei documenti; per decriptarli, attraverso una password che si autodistrugge nel giro di pochi giorni, sono richiesti riscatti con pagamento in Bitcoin. È vero che tutta la pubblicità fa brodo e che gli albori di Internet sono stati dominati da figure borderline, ma in questa fase non sembra giovare alla fiducia di cui una moneta ha bisogno per funzionare.
«Per ora è come una locomotiva il cui carburante è costituito da Bitcoin e che nei vagoni trasporta solo Bitcoin. In futuro i vagoni potranno trasportare altro: tutto quello che è risorsa digitale scarsa vede un’utilità nelle blockchain. Ma il carburante rimarrà il Bitcoin»
Anche il problema della lentezza della trasmissione e dei costi delle transazioni è reale e ha creato una spaccatura nel movimento. Da una parte c’è chi vede come prioritaria la necessità di aumentare la capienza dell’infrastruttura, anche a costo di creare dei centri di elaborazione dati più grandi e quindi più controllabili. Dall’altra chi vede come essenziale per il funzionamento delle blockchain il fatto che i sistemi rimangano distribuiti e che sia garantito l’anonimato. Ciascuna delle due posizioni ha generato delle teorie del complotto da parte della fazione opposta.
Uno degli sviluppatori più importanti del movimento, MIke Hearn, è arrivato a dire che i Bitcoin sono un “esperimento fallito”. Ne sono scaturite varie interpretazioni e anche teorie complottistiche, perché Hearn collabora con R3 Cev. Tra gli scettici c’è proprio Fantacci. «I Bitcoin non hanno futuro, lo dico da tempo e nell’ultimo anno non ho visto elementi per dire il contrario, anzi», commenta. «Se la risposta è che ci possano essere monete alternative (come i litecoin, ndr), dico che per ora non ne ho vista nessuna di convincente».
«I Bitcoin non hanno futuro, lo dico da tempo e nell’ultimo anno non ho visto elementi per dire il contrario, anzi»
Un futuro potrebbe invece averlo la moneta virtuale. Lo spiega ancora una volta Fantacci: «La Banca d’Inghilterra ha prodotto numerosi paper, e in particolare l’ultimo, in cui ha detto che la moneta virtuale poteva essere un fronte di sviluppo». Come? In due modi: perché permette di tagliare i costi di produzione del contante (anche se la moneta virtuale per funzionare ha bisogno di costi energetici sempre crescenti); e soprattutto perché permetterebbe di riprendere il controllo sulle leve dell’economia, dai tassi di interesse all’inflazione. «Oggi ha perso il controllo sulla massa monetaria», spiega il docente, perché il grosso della moneta elettronica è creata dalle banche private. Se le banche centrali si riappropriassero della moneta virtuale, saremmo di fronte a un paradosso: si avrebbe una centralizzazione che è l’esatto opposto del sogno del fondatore del movimento Bitcoin, l’inafferrabile Satoshi Nakamoto.
C’è anche un secondo paradosso: anche se una parte del movimento Bitcoin si rifà al movimento Occupy Wall Street e alla sua critica alla società dell’1% di ricchi contrapposta al 99% di poveri, il modello sociale che scaturirà dall’utilizzo delle blockchain o dell’efficientamento dei database non potrà che avere un effetto di taglio radicale di posti di lavoro. Varrà per il sistema finanziario, ma le conseguenze potrebbero estendersi molto al di là.